Intervista con...

Sabato 27 febbraio, alle ore 18.00, al Piccolo Teatro della Città in via Ciccaglione 29, a Catania, presenterà il suo libro “Jamil e la nuvola” – Splēn edizioni. Parteciperanno il coro di voci bianche “Gaudeamus Igitur” Concentus e il coro polifonico InCanta Vox, diretti da Elisa Poidomani. Letture a cura degli attori Gianni Salvo e Manuela Ventura. Interverrà Raimondo Vecchio che parlerà del valore del gioco nell’infanzia, un pò noia e un po’ curiosità. I diritti d’autore del libro e parte del ricavato dell’editore saranno devoluti in beneficenza per l’adozione a distanza di un bambino.

L’autrice di “Jamil e la nuvola” è Lina Maria Ugolini, catanese, figlia d’arte, scrittrice, drammaturgo, poetessa e contafiabe. Insegna Poesia per musica, Storia del teatro musicale, Drammaturgia musicale e Storia della musica, è socia del CENDIC di Roma. Ha curato vari progetti di scrittura e laboratori per le scuole. Tra le sue pubblicazioni creative e didattiche: “Le forme della poesia e la musica” (VME) e “Il teatro in scatola da scena” (Gremese). Per quest’ultimo editore dirige la collana di teatro “Piccoli Testi per Piccoli Attori”. Tra i suoi libri per ragazzi: “La musica nel tempo dei fiori di cappero”; “William Shakespeare e la tempesta del guanto mascherato”; “Rossini. Piano Pianissimo Forte Fortissimo” (tutti editi da rueBallu). Il suo sito è www.linamariaugolini.it

Ci parli del libro “Jamil e la nuvola”

“Mi capitò qualche tempo fa di sfogliare un Magazine del Corriere della Sera, uscito il 5 Settembre 2008. In quel giornale c’era un servizio dedicato ai bambini egiziani “schiavi del cotone”: piccoli cuori costretti a turni di lavoro estenuanti sotto il sole cocente delle oasi della Mezzaluna. Su quelle pagine ho incontrato il volto sporco di un bambino con una mosca posata come lacrima vicino due occhi grandi e spauriti. Quegli occhi tenevano tra le mani ferite una piccola “nuvola” di cotone. A quegli occhi ho pensato di dare il nome di Jamil.
Credo fermamente nel potere della scrittura. La scrittura è Verbo creativo, scrigno prezioso di rivelazioni. Un Verbo che rappresenta un’opportunità di conoscenza interiore offerta in privato nell’atto della lettura. La conoscenza scaturisce dalla solitudine e dalla riflessione, dall’attenzione e dal silenzio. Una dimensione sempre più difficile da proporre all’uomo del secondo millennio ed impresa ben più triste, da far capire ai ragazzi figli del consumismo e dell’apparenza.
La scrittura di Jamil giova a dare la voce ad un bambino che i genitori, nella crudeltà della disperazione, vogliono far diventare “un uomo”. Un bambino costretto da un destino geografico avverso a vivere in quella parte di mondo dove ancora oggi, giorno dopo giorno, un piccolo essere impara a sopportare sulle proprie spalle l’esperienza del dolore e della fatica.

Il libro "Jamil e la nuvola"

Il libro “Jamil e la nuvola”

Il dolore rappresenta il più grande mistero della condizione umana. È un tema che ho incontrato altre volte nel corso della mia scrittura. Il dolore è il punto di sutura più intimo tra la vita e l’interiorità dell’arte. Indagare tra le sue ragioni serve a sopportane il giogo. Le soluzioni a disposizione possono essere varie: il sorriso, la fede, la bontà, la fantasia.
Quest’ultima è l’arma utilizzata da Jamil per difendere se stesso. L’unica possibilità di preservare ad oltranza il valore inviolabile dell’infanzia. Immaginare serve ad annullare il tempo delle ore e a lambire la sponda dell’eterno.
La scrittura di Jamil e la nuvola si articola con semplicità ricorrendo a tre livelli fonici di narrazione. Nel primo c’è la voce del bambino che racconta in prima persona la sua storia. Si inserisce quindi il narratore pronto ad offrire in alcune pagine un punto di vista oggettivo sull’ambiente e sui fatti.
L’ultimo livello riguarda l’incantamento prodotto della lingua delle fiabe. La fantasia di Jamil si racconta e costruisce nella pagina una dimensione parallela. A riguardo mi è sembrato lecito considerare l’ingranaggio di peripezie offerto dalla lezione de Le mille e una notte. Le fiabe contenute in Jamil seguono un ritmo ed una struttura suggerita dalla fabulazione orale. Trapuntano i capitoli del romanzo producendo delicate sospensioni fantastiche tra la realtà del dolore”.

Parliamo adesso di teatro e del suo percorso verso la drammaturgia, come si è avvicinata alla scrittura teatrale e attraverso quale formazione?
“Ho sempre avuto un rapporto profondo con il teatro, sia di parola sia musicale. Ho cominciato a scrivere poesie da bambina continuando poi nella narrativa, nelle fiabe, e nella drammaturgia. Posso dire d’essere nata e cresciuta al Teatro Massimo Bellini. Sono figlia d’arte, provengo da una generazione di musicisti e scrittori. Mio nonno paterno fu lo scrittore fiorentino Luigi Ugolini che iniziò la sua carriera letteraria su Nuova Antologia grazie a Giovanni Papini. A parte la genetica, è stato fondamentale per me aver incontrato il maestro Gianni Salvo, devo tanto al Piccolo Teatro di Catania, soprattutto il rigore e l’onestà nei confronti della scena. Gianni Salvo ha la capacità e la forza di prelevare da chi fa questo mestiere il massimo delle possibilità espressive. Riesce a farlo con gli attori e con chiunque gli sta accanto. È una disciplina difficile che io condivido. Il teatro è lo spazio dell’umano. Per conoscere l’uomo occorre operare un lavoro di miniera”.

Cosa vuol dire, oggi, fare vera drammaturgia?
“Fare drammaturgia oggi significa prima di tutto cercare di capire la nostra società postmoderna, senza cedere in facili critiche o posizioni di conflitto. In questa società la copia vale quanto l’originale, l’evento spettacolare sovrasta l’artigianato autentico del dire. Il drammaturgo deve accettare di confrontarsi con un costante sottobosco di attori-che-scrivono, di professori che compongono testi ritagliandoli e cucendoli dai classici. Il motivo? Forse una particolare forma di vanità… come diceva Oscar Wilde, la peggiore nemica della vera arte. Consumismo culturale, questo produce il nostro tempo.

Lina Maria Ugolini legge il suo libro

Lina Maria Ugolini legge il suo libro

Per me è fondamentale il credo di Luigi Pirandello: essere uno e nessuno per sé e centomila per gli altri. La drammaturgia è arte della costruzione dei drammi. Per inventarla occorre molto mestiere di teatro e soprattutto di vita, conoscere l’animo degli uomini e il pubblico. Scrivere vuole dire proprio questo: anestetizzare il proprio cuore per essere di volta in volta qualcun altro, rovistare tra i temi universali dell’esistenza giocando con numerosi volti e maschere. Il teatro usa la finzione per mostrare sulla scena la verità, il dramma che ogni essere umano cela nel segreto della propria coscienza: un lutto, una violenza, un’ingiustizia, un tradimento, una calunnia”.

Cosa c’è alla base del suo lavoro?
“Alla base del mio lavoro, nel campo della narrativa, nella poesia e nel teatro, c’è sempre una ricerca di stile e di linguaggio. In questo la scrittura è come la musica. Ogni storia o dramma deve possedere un suono ed un ritmo particolare, un colore che lo contraddistingue e che lo rende unico. La scena poi deve imporre sempre alla scrittura l’evidenza di contrasti o conflitti. La realtà può essere filtrata attraverso la lente dell’ironia o il gesto della poesia. Poi ci sono dei temi universali che non esauriscono mai un lavoro di ricerca. Sento la necessità di sondare le ragioni del dolore umano, le crisi legate all’identità e soprattutto capire i meccanismi che ruotano attorno al potere. L’uomo è un animale politico, nel bene come nel male. Le dinamiche del dare e dell’avere, la ricerca dei consensi, l’avidità, gli eccessi, tutto concorre ad individuare il senso del nostro presente. L’era postmoderna fagocita ed inventa sempre nuovi spazi legati a logiche di denaro e interesse. Le politiche pubblicitarie creano diversi bisogni nell’uomo comune, nuove forme di socializzazione e narcotizzazione, da internet ai centri commerciali. La drammaturgia deve fare i conti con queste nuove coordinate spazio-temporali quanto mai relative”.

Quale pubblico ritroviamo oggi a teatro e che genere di lavoro si può fare con i giovani?
“Il teatro nasce per il pubblico e solo attraverso il pubblico può trovare la ragione della propria pratica. Il pubblico creato dal benessere spesso è un pubblico televisivo che non conosce il senso dell’indignazione, della protesta che non sia becera. È un pubblico che non vuole “pensare”, ma svagarsi, intrattenersi. Il teatro di qualità deve attrezzarsi di nuove strategie se vuole forare gli strati sempre più spessi che regolano l’ascolto e l’attenzione. E sotto questo aspetto il teatro non finirà mai d’essere sperimentale. Con i giovani, invece, è ancora possibile stabilire un particolare rapporto di sinestesia emotiva. I giovani, se ben guidati, possono ancora provare entusiasmo. Nei giovani e nei bambini si può provare a seminare qualcosa ed incrociare le dita…”.

Quali sono i limiti e le potenzialità della Catania teatrale?
“Catania, purtroppo, ha una mentalità provinciale vestita d’arroganza cittadina. Non faccio un discorso personale, certe meschinità non m’ interessano, parlo in generale. Nella mia attività di docente di poesia per musica e drammaturgia al Bellini, lavoro con giovani cantanti lirici e compositori. Spesso chi possiede un vero talento deve faticare tantissimo e cedere a compromessi. Ma non è questo il vero problema, in fondo diffuso in tutti gli ambienti. Essere provinciali significa non provare curiosità verso il lavoro altrui, cercare con tutti i mezzi, leciti ed illeciti, di prendere o disturbare il posto occupato da altri. Chi gestisce la cultura ufficiale coltiva il proprio orticello badando bene a mettere intorno del buon filo spinato. Ci sono i pesci grossi che godono nel masticare i più piccoli. C’è poi molta moda ossequiosa a dinamiche da gregge di pecore. È un vero peccato perché l’arte non può vivere e svilupparsi nell’ostracismo, il teatro ha bisogno di una complicità comune, una contaminazione democratica e non oligarchica”.

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