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Chi aveva visto Stefano Bollani al “teatro” di Zafferana Etnea (non “anfiteatro” come continua a essere chiamato – per ignoranza, da amministratori, organizzatori e uomini di spettacolo – come altri siti consimili in zona etnea) ne aveva gustate le qualità solistiche. Tutt’altra musica si è potuta apprezzare in una splendida serata post ferragostana al teatro antico di Taormina. Per la verità, i momenti di “piano solo” non sono mancati neanche stavolta, come in occasione del delicatissimo “Reginella” d’apertura e in altri intensi momenti, offrendo saggi di elevata creatività e di compiaciuto quanto indiscusso virtuosismo.

Ma la parte preponderante è stata quella in cui il pianista si è immerso nella ricchezza dei suoni del quartetto che, in certi momenti, sembrava una ben più corposa orchestra, e nei dialoghi con (e tra) gli altri musicisti. Bollani suonava – alternativamente o contemporaneamente (talvolta ospitando nella panchetta anche Nico Gori) – un pianoforte e una tastiera “Fender Rhodes”, disposti ad angolo.

Nella foto Stefano Bollani

Nella foto Stefano Bollani

Il “giro”, di cui questo concerto ha rappresentato una sorta di epilogo, ha avuto come titolo “Napoli Trip”, poiché figlio dell’omonimo progetto-disco dedicato alla città partenopea e costruito soprattutto in collaborazione con il sassofonista Daniele Sepe, uno degli artisti più interessanti della sua generazione, che alle radici musicali della Campania unisce la pratica di svariati generi tra loro in perenne contaminazione e che vanta collaborazioni illustri, tra cui quelle con Vinicio Capossella, Teresa De Sio, 99 Posse (“Curre, curre, guagliò”), e tanto cinema e teatro con registi quali Salvatores, Martone, D’Alò. A lui è stato delegato in esclusiva l’eloquio, molto intriso d’ironia con cui ha avvolto la ricca aneddotica, spingendosi sino a punte di sarcasmo verso i musicisti più schizzinosi (“che s’infastidiscono per il rumore di un aereo”, ad esempio; in effetti, se n’era sentito uno proprio poco prima) e alla narrazione della storia del Jazz (“Il Jazz nasce nei bordelli!”, grazie anche a italo-americani come Nick La Rocca).

La conferma di uno stato di grazia è stata offerta dal clarinettista Nico Gori, sodale di Bollani ma con ampi trascorsi di collaborazione (Rava, Salis, Gatto, ecc.); anche a Taormina ha mostrato grandissime qualità di virtuoso e una perfetta capacità d’immersione nei flussi sonori dell’insieme.

Apprezzatissimo anche il quarto elemento, il batterista Bernardo Guerra che, “dal vivo”, ha preso il posto di Manu Katché il quale – con gli altri tre – aveva partecipato alla registrazione dell’album.

Ampio il panorama delle esecuzioni e molti gli “assòlo”, come l’omaggio (“Caravan Petrol”) del “capobanda” al suo mito giovanile, Renato Carosone di cui apprezzò la contemporanea capacità di riuscire a divertirsi sapendo suonare, cantare e comporre; questo spirito scanzonato (con intento allusivo) è ampiamente riversato nel brano “O Microchip”. L’omaggio a Pino Daniele è nel solistico “Putesse essere allero”) mentre quelli “in “compagnia” sono rivolti, tra gli altri, a Raffaele Viviani (“O guappu ‘nnammurato”) e Nino Taranto (“Il bel Ciccillo”).

Se si volesse spaccare il pelo in quattro, andrebbe registrato anche qualche colpo a vuoto, confessato in un caso dagli stessi artisti («Ora come ce ne usciamo?»; «che caduta…» e “puff”, gesto conseguenziale) ma – tra altre contaminazioni (con la musica brasiliana e con quella afro-americana), riferimenti a Frank Zappa (grandissimo musicista statunitense di origini siciliane), un finto saluto («Tanto, poi, faremo tre ore di bis») e il bis vero e proprio, che, anche se non di tre ore, ha costituito pur sempre una corposa appendice all’intero concerto – i quattro hanno realizzato una perfetta simbiosi con l’attento e competente pubblico, (numeroso, anche se meno di quanto gli esecutori avrebbero meritato e gli assenti, come sempre, hanno avuto torto) che ha applaudito con convinzione, sia durante che al termine.

Salvo Nicotra

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