Cronaca

Durante questo tempo di Quaresima, mi sembra opportuno rileggere e riflettere sulle Confessioni di sant’Agostino (+430), che è l’opera più originale e più letta del vescovo d’Ippona, opera insieme autobiografica, filosofica, teologica, mistica e poetica. Di questo “diario”, che appartiene, per comune consenso, alla letteratura universale, è impossibile dirne in breve il significato e l’influsso che ha esercitato nella storia.

Per averne un’idea possiamo partire da due considerazioni di fondo: le Confessioni sono l’opera di un convertito che ha l’umile riconoscimento della colpa e la gratitudine a Dio per la sua misericordia e il suo perdono, il rammarico per aver vagato lungamente per le vie dell’errore e la gioia per la verità ritrovata, la lode a Dio e i benefici ricevuti e l’ansia di redimere il tempo perduto, la generosità del servizio e l’attesa struggente della salvezza definitiva. Non è dunque la sola confessione dei peccati, ma anche, e molto di più, la confessione di lode, come vuole appunto la parola biblica confessio, che significa riconoscere i propri peccati e lodare Dio. La confessio peccatorum e la confessio laudis –  come spiega sovente sant’Agostino stesso – nascono ambedue dalla fede ed esprimono lo stesso amore, che implora il perdono ed esalta la misericordia di Dio.

Nelle Confessioni non dobbiamo cercare un’autobiografia in senso stretto e compiuto dell’Ipponate, egli, infatti, non racconta tutto di sé, ma solo quello che rientra nella sua prospettiva, che è quella della conversione. Ma ora ascoltiamo Agostino stesso: egli, nell’atto di mandare il libro delle Confessioni a Dario, suo amico e ammiratore, scrive: <<Ricevi dunque, figlio mio, signore mio illustre e cristiano non già nell’apparenza esteriore, ma per la carità cristiana… i libri delle mie Confessioni che hai desiderati. Osservami in essi e non lodarmi più di quel ch’io sono; in essi credi a me e non ad altri sul mio conto. In essi considerami e osserva che cosa sono stato in me stesso, per me stesso e se vi troverai qualcosa che ti piacerà di me, lodane con me non me stesso, ma Colui che ho voluto venga lodato nei miei riguardi. Poiché è stato lui a farci e non già noi da noi stessi. Noi infatti eravamo periti ma è stato lui a rifarci, lui che ci aveva fatti. Quando in essi m’avrai trovato, prega per me, affinché io non faccia regressi, ma sia messo in grado di fare progressi. Prega, figlio mio, prega. So quel che dico, so quel che chiedo>> (Epist. 231,6). Queste parole, che ispirano tanta sincerità e umiltà, qualità proprie del convertito, non hanno bisogno di commento: sono la presentazione migliore dell’opera agostiniana e la chiave autentica per leggerle nello spirito dell’autore. Ma anche a questa prima considerazione occorre aggiungerne un’altra: le Confessioni sono una lettera a Dio. Agostino scrive per gli uomini, ma parlando a Dio; a Dio narra, perché lo sappiano gli uomini, tutto ciò che lo ha interessato e lo interessa, non solo il suo allontanamento dalla fede cattolica e il ritorno ad essa, ma anche le sue meditazioni su Dio e sull’uomo – binomio inseparabile che riassume tutto il vasto pensiero agostiniano (Cfr. Solil. 1,2,7) – considerazioni sulla creazione e sul tempo, sulla Sacra Scrittura, di cui desidera conoscerne le profondità, e sul mistero della salvezza, sulle ascensioni interiori e sulla contemplazione delle opere di Dio.

Le Confessioni sono lettera a Dio perché prendono il tono e il fremito della preghiera che narra e narrando loda, ringrazia, adora e implora. Cominciando infatti col grido biblico: <<Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virtù, e la tua sapienza incalcolabile>> (Confess. 1,1,1), terminano con l’accorata implorazione della pace: <<Signore Dio, donaci la pace… la pace del riposo, la pace del sabato, la pace senza tramonto>> (Confess. 13,35,50).

Ma la preghiera ha gli spazi stessi della visione teocentrica e antropocentrica dell’autore, che abbraccia ad un tempo la filosofia, la teologia e la mistica. La filosofia è insita nei tessuti stessi della sua conversione, che fu conversione di un filosofo.

Sulla visione filosofica si innesta quella teologica della grazia, della quale le Confessioni sono una esaltazione. Questo scopo, che Agostino stesso mette esplicitamente in rilievo verso la fine della vita (Il dono della persev. 20,53), non deve indurci a pensare, come alcuni hanno fatto, che il Doctor gratiae abbia esagerato gli aspetti negativi della sua vita per far risaltare meglio l’opera della grazia liberatrice. Ad Agostino, che racconta se stesso parlando a Dio, importava un atteggiamento di assoluta sincerità sia nell’esporre i fatti, che Dio conosceva, sia nel giudicare la loro gravità alla luce della misericordia che gli veniva da Dio.

Dalle altezze della visione teologico-filosofica di Dio e dell’uomo, di Dio che guida l’uomo e dell’uomo che anela al possesso di Dio, nasce la mistica agostiniana, di cui le Confessioni sono il monumento più grande. In esse descrive le ascensioni del suo spirito verso le vette della contemplazione, dal primo tentativo, che fu uno scacco (Cfr. Confess. 7,17,23), al dono ineffabile dell’estasi di Ostia Tiberina, dove la mamma Monica morì. Questo momento doloroso, insieme ai non infrequenti rapimenti nelle sue assidue meditazioni sulla Scrittura (Cfr. Confess. 10,40,65), resta una delle pagine più sublimi della letteratura spirituale cristiana (Cfr. Confess. 9,10,23-26) Questi fatti straordinari sono indici dell’atteggiamento abituale di Agostino delle Confessioni, che è sempre quello del mistico che anela a Dio e vuol salire verso Dio; anelito e ascensione che vengono animati spesso dall’ala della bella poesia. In realtà Agostino fu un amante appassionato della bellezza di Dio: <<Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai>> (Confess. 10,27,38), <<bellezza di ogni bellezza>> (Confess. 3,6,10) <<nel quale, dal quale e per mezzo del quale sono buone e belle tutte quelle realtà che hanno bontà e bellezza>> (Solil. 1,1,3). Di questo amore per la bellezza le Confessioni ci danno innumerevoli esempi che, per questione di spazio, non possiamo recensire. Chi ne vuole una prova, veda il celebre detto iniziale delle Confessioni, espressione dell’esperienza universale: <<Signore… ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te>> (Confess. 1,1,1), venga tradotto nel corpo delle stesse, per esempio, là dove dice al Signore: <<Dammi ciò che amo. Perché io amo, e tu mi hai dato di amare. Non abbandonare i tuoi doni, non trascurare la tua erba assetata>> (Confess. 11,2,3), oppure legga la risposta alla domanda che Agostino si pone, e noi con lui: <<Ma che cosa amo quando amo Te?>>. La risposta di sant’Agostino è: <<Non una bellezza corporea, né una grazia temporale: non lo splendore della luce, così caro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene d’ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra accette agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio Dio: la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, ove olezza un profumo non disperso dal vento, ov’è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio>> (Confess. 10,6,8).

Diac. Sebastiano Mangano

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