Lo abbiamo applaudito ed incontrato di recente a Catania in occasione della messa in scena, al “Verga”, dello spettacolo di Furio Bordon “Un momento difficile, da lui diretto e poi ci siamo rivisti per la presentazione della nuova stagione di prosa del Teatro Stabile etneo.
“Non so perché ho scelto di fare il regista, – racconta Giovanni Anfuso – ricordo che da piccolo, a cinque – sei anni, ballavo sul letto di mamma e papà e in quel momento dissi da grande voglio fare il regista senza neanche sapere il significato di questo lavoro. E’ stato il destino della mia vita ed ho scelto di fare il regista perché mi piaceva stare dietro le quinte e la parte gestionale e organizzativa dello spettacolo, insieme al bisogno di raccontare qualcosa in modo nuovo. La mia formazione è stata abbastanza tradizionale: da liceale ho frequentato tante compagnie catanesi ed il mio punto di riferimento è stata la mia parrocchia Santi Pietro e Paolo e poi c’è stato l’incontro con l’Accademia del Centro Rai e con i maestri Puggelli, Strehler, Mauri, l’incontro con la lirica. Questa in linea di massima la mia formazione, ad un certo punto ho deciso di sbagliare con la mia testa e fare quindi il regista”.
“Posso dire tante cose: che con Puggelli c’è stato un rapporto profondo, di scambio, era un uomo che scriveva moltissimo ed i suoi appunti erano già una regia, Strehler era invece un uomo difficile qualsiasi dialogo con lui si trasformava in uno show e dovevo essere in grado di apprendere i suoi insegnamenti, Mauri invece è un regista tenerissimo, ma anche di grandissimo carisma ed autorevolezza in scena. Tre grandi che studiavano tutto di un testo, di un autore, non tralasciando nulla e questo per me è stato un grande artigianato”.
Ma il successo di uno spettacolo è da attribuirsi soprattutto alla scelta registica o anche ad altri componenti?
“Ci sono dei fatti alchemici, magici, oltre che uno studio scientifico. Lo spettacolo nasce da uno studio attento, meticoloso, di tutti i particolari e di tutti i componenti. Il successo di uno spettacolo si raggiunge a poco a poco ed è il risultato del lavoro di squadra, partecipa lo scenografo che è quasi il vice regista, che organizza lo spazio, partecipano il costumista, il musicista, spesso il coreografo o un maestro di canto, il disegnatore delle luci e poi gli attori ed è importantissima la loro scelta”.
E’ vero che la gente non va più a teatro e che di cultura non si campa?
“No, non è vero che la gente non va più a teatro. Quello che sta succedendo è che il pubblico è più educato, sa distinguere e va cercando proposte diverse. In generale i prodotti artigianali e di qualità vengono premiati dal pubblico, quindi siamo di fronte ad uno spettatore più consapevole e che sceglie in maniera più avveduta senza nascondere il fatto che la crisi economica costringe a scegliere prodotti particolari. Quando la proposta è ben fatta e di qualità il pubblico di ogni età risponde sempre così come è successo recentemente a Catania per “Un momento difficile”. Non sono d’accordo con chi afferma che di cultura non si campa perché di cultura si mangia, eccome e lo dimostra l’inversione di tendenza rispetto al dato – per esempio – dell’affluenza del pubblico nei musei con delle percentuali enormi di crescita. Il teatro, invece, è fortemente danneggiato dal finanziamento pubblico che non sempre rispecchia la qualità della proposta ed è chiuso in una morsa asfittica ed autoreferenziale che mette teatri pubblici a scambiarsi gli spettacoli tra di loro e i teatri privati uguali. Vi è quindi una chiusura totale del mercato e questo non sempre agevola la proposta e la qualità”.
Quali doti o qualità occorrono per poter accedere al mondo dello spettacolo? L’attore ed il regista ai nostri giorni…
“Oggi serve una grandissima preparazione, assistiamo agli attori di formazione canadese, del Quebec, del Canada francese, ma anche di formazione nordirlandese o di formazione spagnola, delle regioni del mondo in cui si stanno facendo grandi investimenti sulla nuova drammaturgia. Sono attori che sanno recitare, ballare e spesso sanno anche scrivere, quindi attori e drammaturghi contemporaneamente. Un attore deve essere fondamentalmente completo e con una grande preparazione oltre che una incommensurabile umiltà. Il successo si conquista e dopo che lo hai ottenuto devi saperlo mantenere perché così come è arrivato va via. Oggi il mondo dello spettacolo è inflazionato da diversi personaggi che arrivano all’ultimo momento da canali differenti, ma il pubblico questo lo scopre facilmente: sono solo meteore che lasciano il tempo che trovano. Il regista deve sempre studiare ed essere curioso, sapersi infine mettere in discussione regalando tanto al suo pubblico”.
In che direzione va, secondo lei, il teatro catanese?
“Il teatro catanese vive un momento di grandissima difficoltà che può essere, però, un momento di rinascita. Non è esistito un vero ricambio generazionale e questo ha condizionato non solo l’attività teatrale ma anche la proposta drammaturgica vera e propria. Non dimentichiamo che i giovani attori di un tempo che si chiamavano Umberto Spadaro, Turi Ferro, Ida Carrara, ecc. guardavano alla drammaturgia del loro tempo e quindi a Diego Fabbri piuttosto che a Sciascia o a Patti e quindi furono moderni e contemporanei nel loro tempo. Noi a oggi a Catania non lo siamo ancora o non lo siamo sufficientemente, non c’è stato un ricambio generazionale nella classe attorale, i registi fanno molta fatica a proporre nuove strade ed intanto il panorama teatrale si frantuma con proposte che ricalcano gli stessi titoli da una parte e dall’altra. Quindi la situazione è molto complessa ancor di più aggravata dal disastro economico in cui è piombato il Teatro Stabile che ha perso la sua funzione di faro e carro trainante. Ma come tutte le crisi può essere il momento buono per ripartire”.
Perché oggi nelle sale teatrali tradizionali della nostra città si vedono pochi giovani? Cosa occorre proporre o fare per coinvolgere di più il pubblico giovanile?
“Perché il teatro catanese non parla la lingua dei giovani. Faccio un esempio: la scorsa stagione ho inaugurato il cartellone al Piccolo di Milano con Le serve di Jean Genet, spettacolo fortunato e prodotto anche dallo Stabile di Catania. Ebbene quello spettacolo, anche nella nostra città, ha avuto tantissimi giovani ed a Milano la sala ogni sera era esaurita, con un pubblico al cinquanta per cento di giovani, under 35. Questo vuol dire che occorre fare un lavoro con le scuole, con le università in modo da parlare a teatro con il linguaggio dei giovani, dei ragazzi, senza per questo essere ostile al pubblico tradizionale. Parlare con la lingua dei giovani significa svecchiarci e metterci in gioco, cercando altri linguaggi, altrimenti rimarremo soffocati dal nostro essere vecchi al di la del dato anagrafico”.
Cos’è secondo lei la drammaturgia?
“La drammaturgia è il racconto di fatti e avvenimenti che ci riguardano: Pirandello, Shakespeare, Molière raccontavano storie della loro quotidianità e che interessavano il loro pubblico. Oggi questo non sta avvenendo in Italia dove è difficile rappresentare la drammaturgia contemporanea, a parte qualche caso come al Piccolo di Milano, è davvero difficile trovare una drammaturgia strutturata. Il drammaturgo pone delle sollecitazioni ed applica un sistema di decodifica agli eventi ed agli uomini del suo tempo e lo propone al suo pubblico. Propone insomma una lettura della realtà. Mancando una drammaturgia contemporanea – così come a Catania – manca una fetta di contemporaneità, manca una visione della realtà quale essa è”.
Un aneddoto, un incontro particolare che ricorda…
“Ne ho tantissimi di aneddoti, di incontri, da raccontare, ma uno di questi spicca particolarmente. Facevamo uno spettacolo dal titolo “Questa terrà diventerà bellissima”, rappresentato a Catania e poi allo “Spasimo” di Palermo. Invitammo tutte le autorità e venne l’allora procuratore capo Pietro Grasso e chiaramente tutte le autorità arrivarono scortate: si raccontava dei fatti di via D’Amelio e della strage di Capaci, si creò una dinamica, una tensione tra gli attori e il pubblico davvero forte ed alla fine un giovane, che era uno dei capi scorta di una personalità presente, che era vivo solo perché quel giorno era smontante, mi venne incontro e mi abbracciò piangendo. Quell’abbraccio, quelle lacrime, non le dimenticherò mai. In quei momenti hai l’impressione che il teatro può servire a tanto..”.
La sua più grande soddisfazione ed un sogno nel cassetto…
“Sono un insoddisfatto cronico non ho delle grandi soddisfazioni, sono un perfezionista a volte ossessivo. Spesso le soddisfazioni ti fanno adagiare su dei risultati che il giorno dopo sono anacronistici. Amo dire che lo spettacolo più bello non è quello che ho fatto ma quello che farò. Ho tanti sogni nel cassetto e fra questi fare uno spettacolo con tanti bravi attori catanesi ed andare in tournèe in tutta Italia senza pormi il problema del nome importante. Penso che gli attori di Catania abbiano dei grossissimi numeri e forse c’è la responsabilità di tanti se questi numeri non sono mai stati espressi in maniera compiuta”.
Chi è Giovanni Anfuso nella vita di tutti i giorni: passatempi, sogni, libri preferiti ecc.
“Giovanni Anfuso nella vita di tutti i giorni è uno studioso che lavora tredici – quattordici ore, dalle otto alle ventiquattro. Sono uno che cerca di documentarsi e che sa riconoscere a teatro quando i colleghi sono bravi, cerco anche di essere un buon padre. Non ho molti hobby in quanto la mia passione è il teatro, sono un onnivoro musicale ascolto tutta la musica possibile ed immaginabile dalla lirica alla sinfonica, dal rock alla musica leggera, anche se prediligo il jazz. Leggo tantissimo, soprattutto drammaturgia, in generale non mi reputo un eroe, caso mai un soldato che un giorno si arma per combattere la sua guerra quotidiana”.
Come vede il futuro del dialetto siciliano e come giudica il continuo nascere di Scuole o Accademie di teatro?
“Spero che il dialetto siciliano abbia un grande futuro. E’ stata la mia prima lingua con la quale ho imparato a parlare, penso in siciliano e traduco in italiano, ho diretto in Francia, in Belgio, in Germania, in Sudamerica e spesso quando non riuscivo a farmi capire parlavo in siciliano e tutti mi capivano. Reputo che il dialetto sia una grande ricchezza e spero che nel teatro siciliano vi possa essere uno spazio per la programmazione del teatro dialettale. Per le accademie e le scuole non posso che essere favorevole, più ne nascono meglio è. Certo sarebbe meglio se dietro ad ogni scuola ci fossero dei maestri ma – ahimè – maestri ce ne sono pochi, anche se spesso una scuola sgangherata può fungere da sensibilizzatore, da stimolatore di fatti teatrali. Credo che comunque Catania e la Sicilia debbano dotarsi di scuole importanti per formare gli attori e solo formando una classe attorale nostra possiamo pensare al futuro di un teatro siciliano, ovvero della regione siciliana e non dialettale”.
Uno spettacolo che ha diretto, che ricorda con piacere e che le è rimasto impresso nella memoria…
“Anche ad uno spettacolo sbagliato è legata una porzione di affetto, ricordo con emozione la “Elena” di Ghiannis Ritsos con Ivana Monti del 1978, per Taormina Arte, oppure “Phaedra” dell’autore Alberto Bassetti con Liliana Randi ed Angelo D’Agosta, attori ai quali sono molto legato”.
Reduce dalla regia di “Un momento difficile”, cosa le ha lasciato questo spettacolo ed il profondo testo di Furio Bordon?
“E’ un testo che mi ha lasciato tanto, anche perché la mia mamma anche lei è andata via il luglio scorso ed è una operazione che ho dedicato interamente a lei. In alcuni momenti mi è sembrato che lo spettacolo sia servito a farmi una carezza sull’anima e a mitigarmi delle ferite che non guariranno mai. A parte questa parentesi personalissima il lavoro di Furio Bordon mi ha fatto collaborare con una compagnia meravigliosa guidata da Massimo Dapporto”.
Quali i suoi prossimi impegni?
“Sto lavorando, al momento, a stretto contatto con la famiglia Proietti, con Gigi e Carlotta e contiamo di fare uno spettacolo la prossima stagione, poi bolle in pentola l’adattamento di un romanzo del quale adesso non posso dire nulla e dulcis in fundo la ripresa in Sicilia, nel Lazio, in Friuli e in Toscana della “Phaedra” di Alberto Bassetti”.