Cronaca

Nella Pasqua di 170 anni fa, esattamente il 6 aprile del 1849, venerdì santo, Catania rivisse nel modo più tragico e violento la cruenta e disumana Passione di Cristo e di tanti suoi figli, giovani ed anziani e persino bambini, morti per difendere l’onore  la dignità della città piegata col sangue e il terrore dal ritorno repressivo della tirannide borbonica. I catanesi in quella triste e dolorosa settimana santa, preceduta da una settimana di Passione colma di preoccupazione per il pericolo mortale incombente, non poterono partecipare alle sacre funzioni del Triduo Pasquale perché successe, nonostante fosse prevedibile ed atteso, qualcosa di terribile e di nefando che sconvolse ogni famiglia e devastò ogni casa: la capitolazione, anche se eroica e fiera, della città ribelle e sfortunata al governo della monarchia del Regno delle Due Sicilie.

Catania fu spietatamente punita nei giorni santi del Triduo Pasquale per aver partecipato alla rivoluzione federale e risorgimentale siciliana del 1848-49 e aver osato di opporre una disperata ma indomita e micidiale resistenza casa per casa e con le barricate in tutte le strade alle ben equipaggiate regie truppe regolari napoletane comandate dal generale Antonio Filangieri e sostenute da una munita flotta militare che bombardò duramente la città dal mare.

I catanesi vissero una quaresima e una “dominica in palmis” assai tristi per l’incubo di essere saccheggiata dal corpo di spedizione che, dopo la presa di Messina, avanzò in modo inesorabile lungo la costa jonica riconquistando la roccaforte di Taormina e quasi senza colpo ferire Giarre ed Acireale il mercoledì santo 4 aprile; da quest’ultima cittadina il principe di Satriano lanciò un ultimatum di resa incondizionata a Catania. Un nobile esponente degli insorti, Agatino principe di Biscari, rispose coraggiosamente “Coi Borboni non si patteggia!”. Il comandante militare di Catania, mandato dal governo provvisorio di Ruggero Settimo, il generale franco-polacco Luigi Mierolawski, si dimostrò incapace e fu sopraffatto dalla strategia dell’efficientissima artiglieria nemica unita alla sorpresa di far avanzare le truppe dai paesi pedemontani etnei e non da Acicastello-Ognina dove erano attese dai nostri reparti di difesa e dal battaglione giovanile dei “cani corsi”.

La sera del giovedì santo, sotto una pioggia battente, i catanesi si prepararono a resistere ad oltranza e invece di girare le “7 chiese” per visitare, dopo la funzione “in Coena Domini”, i “sepolcri” eucaristici innalzarono ovunque barricate, anche incoraggiati dal comportamento patriottico soprattutto dell’alto clero –basti pensare ai canonici “carbonari” della Collegiata, buona parte dei quali accademici e docenti universitari, ai colti monaci di S. Nicolò l’Arena- guidato dal vescovo Felice Regano che aveva partecipato alle sedute del Parlamento siciliano che aveva dichiarato decaduta la monarchia borbonica e aveva benedetto solennemente in cattedrale la bandiera tricolore con l’emblema della Trinacria. Facendo interrompere il sacro silenzio del venerdì santo, mons. Regano all’alba del 6 aprile fece suonare il campanone di S. Agata al cui cupo suono d’allarme risposero tutte le campane della città. La battaglia di Catania, iniziata a Barriera del Bosco si protrasse con alterne vicende per tutta la giornata sotto un sole sciroccoso. Fu schiacciata duramente l’intrepida resistenza delle nostre male armate truppe al Tondo Gioeni, alla Badiella, al Borgo, al Rinazzo, a Porta Aci, al Carmine.

Ad un certo punto parve che le sorti della guerriglia si capovolgessero a favore dei catanesi, a tal punto che le campane suonarono a gloria. Ma l’euforia durò poco perché scese alla carica da Barriera un reggimento svizzero seminando morte e distruzione. La retroguardia borbonica si diede al saccheggio selvaggio, incendiando e devastando tutto ciò che incontravano, compresi l’ospedale San Marco, le chiese con le immagini velate dai drappi violacei e gli altari profanati dove si sarebbe dovuto celebrare la “Feria sexta in Parasceve”. Tante donne che si erano rifugiate nella casa di Dio furono violentate, altre patirono accanto ai loro uomini massacrati e furono sul punto di cadere sotto il piombo nemico mentre, crocerossine ante litteram, cercavano di soccorrere i feriti dei due schieramenti . Il massacro anche dei civili riempì di sangue le strade.

Mentre la devastazione desolava ogni rione, si era diffusa la notizia che il palazzo degli Studi stava per essere dato alle fiamme dalle truppe napoletane giunte lì per stanare i patrioti e per incendiare le biblioteche dell’Università e dell’Accademia Gioenia e i gabinetti scientifici ivi operanti. Una donna colta e timorata di Dio, una certa Andreana Sardo, nipote del bibliotecario canonico Giovanni Sardo, lasciato il rifugio della chiesa del Santissimo Redentore al Rinazzo annessa al conservatorio del Buon Pastore per le donne traviate ed ex carcerate e dove avevano trovato riparo i capi insorti, affrontò temerariamente il maresciallo Ferdinando Nunziante per chiedere pietà almeno per il massimo tempio della cultura, reo di essere la sede dei comitati rivoluzionari e cenacolo dei capi dell’insurrezione. Avuta una scorta e raggiunto il palazzo universitario, riuscì con coraggio leonino da sola a spegnere l’incendio.

La “liturgia delle tenebre” della Pasqua di Passione e Morte di Catania si consumò a sera in piazza Duomo allorché quando tutto era perduto, i ragazzi del battaglione dei cani corsi travestiti da Borboni tentarono l’ultimo incredibile ed inutile assalto all’arma bianca agli svizzeri, ormai anch’essi stremati. Quella sera al posto del canto degli “Improperia”, dell’adorazione della Croce, della denudazione degli altari e della mesta processione senatoria del Cristo Morto sul cataletto e dell’Addolorata, ogni famiglia portò a casa i cadaveri dei propri cari e pianse i propri morti.

Antonino Blandini

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