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Trasumanar significar per verba / non si porìa…”.  Salvo Nicotra, direttore artistico del Centro Magma di Catania, afferma che queste parole del canto primo del Paradiso (vv. 70-71) accompagnano da un po’ di tempo quelle sue riflessioni sul teatro (quindi, sull’esistenza) che spesso hanno trovato e trovano la migliore delle sponde – umane ed attoriali – in Antonio Caruso. Tra l’altro, leggere Attisani è stato per lui un corroborante viatico; non facile ma pungolante quanto basta e in cui soprattutto quelle parole di Dante ricorrono. Così, nel cammino – a lascia e prendi – che Nicotra ha da decenni con l’attore ed autore (oltreché didatta e perciò anche “teorico”, nel miglior senso) Caruso – reduce dall’intensa recente prova kafkiana con Fabbricateatro – è nata l’esigenza di “riproporre senza riproporre” (cioè, non in termini statici ma evolutivi) questa produzione che è figlia di altra già vissuta, qualche tempo addietro, al Teatro di Paglia e nella quale le parole del sommo poeta convivevano con le note dei Pink Floyd.

Locandina

Nell’ambito del cartellone della Sala Magma di Catania, in via Adua 3, per la stagione di prosa in corso, è stata realizzata, una lettura-performance prodotta dal Centro catanese e intitolata “La Comedìa di Dante in voci e suoni (canti scelti dalla terra al cielo)”.

Tre attori si sono alternati in uno spazio indefinito, senza apparenti confini e con pochi oggetti, tracciando un itinerario che comprendeva sei canti – dal primo dell’Inferno al trentatreesimo del Paradiso – con lo stesso Caruso a curare il coordinamento registico e ad affrontare apertura e chiusura. A Giovanni Calabretta sono stati affidati gli umanissimi incontri del “terzo” e del “quinto” dell’Inferno, culminanti nelle sofferenze di Paolo e Francesca, resi coerentemente con semplicità e intensa partecipazione grazie anche a un’efficace quanto sobria gestualità, accentuata nelle adeguate movenze delle mani e nell’espressività del volto, sino al cedimento dell’ultimo verso (“e caddi come corpo morto cade”).

Donatella Marù, raccolto simbolicamente il testimone (un velo bianco) da Caruso, offriva al poeta tentennante – per bocca di Virgilio – il suadente conforto delle tre sante donne (Maria, Lucia e Beatrice), come in un anticipo di quello che sarà il cammino celestiale. Toccherà a lei stessa, infatti, proprio l’incipit del Paradiso con un’emozionante azione scenica (la trasformazione di un cinereo scranno in abbagliante trono) che precede la commozione del “trasumanar” dall’impossibile descrizione verbale, reso con intensità altrettanto difficile da descrivere.

A un Antonio Caruso, praticamente “in trance”, il compito di condurre l’attento e coinvolto uditorio alle terzine dell’estasi conclusiva in cui le braccia sollevate facevano stagliare sul fondale l’ombra del crocifisso.

I protagonisti in scena (Foto Simone Nicotra)

Il chiaroscuro delle tre voci si fondeva mirabilmente con il “tappeto sonoro” creato dal chitarrista Salvatore Daniele Pidone, unica presenza costante e immanente – eppure impalpabile – che con chiara identità (ora attraverso delicati “giri armonici” ora persino con percussioni su corde e cassa della sua chitarra) agevolava una lettura forse più intima rispetto a quella offerta dai suoni di Pink Floyd, che qualcuno ricordava ma di cui – con tutto il rispetto – non si è avuta nostalgia.

Del resto Antonio Caruso aveva espresso le sue intenzioni precisando che: “Il fascino dei versi danteschi sta più nelle cose non scritte che nello scritto… Sta nelle ombre nascoste dietro, dentro e attorno alle parole…”. Di fatto, nella performance gli unici “effetti speciali” scaturivano dalle voci e dai suoni, dai gesti lievi dichiarati e da quelli solo  pensati, dai corpi in movimento, dal buio, dalla luce e dalle ombre, creando un risultato che, malgrado l’apparente avvicendamento degli attori, sviluppava una sostanziale coralità.

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