Teatro

Una operazione tutt’altro che semplice, discutibile per l’eccessiva lunghezza della messinscena e per i ritmi dello spettacolo, spesso troppo lenti. Parliamo de “La cagnotte” di Eugène Labiche, lavoro proposto al Teatro Verga di Catania e prodotto dallo “Stabile” etneo nella versione italiana e con la regia di Walter Pagliaro. La pièce, in replica sino al 7 Febbraio, si avvale di un cast di tutto rispetto, oltre che delle eleganti scene e costumi di Luigi Perego, delle musiche di Germano Mazzocchetti eseguite dal vivo, al pianoforte, da Giuseppe Infarinato e del gioco luci di Franco Buzzanca. Ad appesantire il lavoro, che si snoda in due atti, per un totale di quasi tre ore, un testo che forse bisognava sfoltire e renderlo più scorrevole e godibile per il pubblico.

Labiche è apprezzato autore di vaudevilles, genere comico brillante tipico del teatro francese, noto per “il Cappello di paglia d’Italia”, da cui Nino Rota trasse “Il cappello di paglia di Firenze” e La “cagnotte”, nel gioco d’azzardo, è un salvadanaio dove, partita dopo partita, coloro che giocano insieme, raccolgono parte delle vincite per poi spendere di comune accordo i soldi raggranellati.

Nei suoi due atti lo spettacolo racconta i caratteri, i segreti, di un gruppo di amici, benestanti provinciali, che si riuniscono a La Ferté-sous-Jouarre, nella provincia francese, in casa del benestante Champbourcy dove si consuma il rito della partita a carte e che alla fine decidono di rompere il salvadanaio e investire i soldi accumulati in un viaggio a Parigi, che si rivelerà avventuroso. E dietro al gioco, al viaggio a Parigi, si scoprono i caratteri e gli interessi di ciascun personaggio. Il gruppo infatti a Parigi si disunisce per raggiungere i propri obiettivi individuali: Champbourcy cerca un bravo dentista, la figlia smania per fare spese nei grandi magazzini, la zia zitella attende l’esito del suo annuncio matrimoniale e gli altri mirano al proprio scopo. La loro ingenuità di provinciali li porterà verso una folle giornata di equivoci, compreso l’inseguimento della Polizia, tanto che poi, alla fine, matura in loro il desiderio di fuga, per tornare al loro paese.

In scena Viviani, Pattavina, Poddighe (Foto Antonio Parrinello)

In scena Viviani, Pattavina, Poddighe (Foto Antonio Parrinello)

Tra malintesi, equivoci e battute, però, affiora non solo la povertà morale dei protagonisti, ma anche la poca consistenza del testo di Labiche, la quasi totale mancanza di ritmo e di azioni, malgrado l’apprezzabile impegno degli attori in scena che appaiono, comunque, quasi prigionieri nei loro ruoli, incapaci di potersi esprimere secondo le loro corde e caratteristiche. Raramente, quindi, la pièce di Labiche, nella versione del regista Walter Pagliaro, riesce a rivelarsi, nel suo svolgimento, comica e scorrevole, anzi spesso annoia il pubblico, per i ritmi dilatati, per l’estrema artificiosità delle trovate, per la lunghezza spropositata della trama, infarcita di lungaggini e priva di mordente e l’impianto scenografico elegante, la mano registica di Pagliaro non riescono a dare brio allo spettacolo, apparso, come già detto, troppo ingessato e statico.

Nel cast, oltre a Pippo Pattavina nel ruolo del possidente Champbourcy, si disimpegnano con abilità negli altri ruoli Gian Paolo Poddighe, Vittorio Viviani, Giovanni Argante, Valeria Contadino, Fulvio d’Angelo e Margherita Mignemi.

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