Teatro

Una leggenda afghana ci racconta di una pietra magica alla quale è possibile confidare tutti i propri dolori, le proprie sofferenze; una pietra alla quale è possibile rivelare tutti i propri segreti… E la “Pietra di pazienza” che dà il titolo al capolavoro dello scrittore e regista afgano Atik Rahimi.

L’attrice Barbara Gallo è la protagonista della produzione allestita dall’Associazione Nuovo Mondo, ospite alla sala Musco dal 12 al 14 febbraio 2016, per la stagione “L’isola del Teatro”, impaginata dal direttore Giuseppe Dipasquale con peculiare apertura alle novità drammaturgiche. Con Barbara Gallo in scena ci sarà anche Oreste Lo Basso. I costumi sono di Mela Rinaldi, mentre Franco Sardo ha realizzato gli elementi di una scena disadorna: una stanza, un letto. Un uomo ferito privo di conoscenza. Un uomo muto e immobile. Un uomo ridotto allo stato vegetativo. Sullo sfondo un Paese che nega alle donne financo il diritto di parlare: l’Afghanistan talebano. Una donna, moglie e madre, decide di approfittarne e comincia a rivelare a quell’uomo i propri segreti più inconfessabili. All’inizio sono solo brandelli di ricordi, e a poco a poco con sempre più forza, emergono le riflessioni più proibite, le sofferenze, i timori e i desideri di una vita piena di angosce. Una donna che trova la sua pietra magica proprio nell’uomo che in vita non è riuscito mai ad ascoltarla. E paradossalmente proprio perché privato della parola e del gesto, riesce ad essere il privilegiato interlocutore di questa disperata confessione.

La scrittura di Atiq Rahimi, autore della pièce e vincitore nel 2008 del più importante premio letterario francese (il Goncourt), è forte e immediata, ma allo stesso tempo ironica e ribelle. Una scrittura complessa che tuona secoli di sottomissione e soprusi subiti: la condizione della donna di “Pietra di pazienza”, volutamente senza nome, è non lontana dalle donne di altri contesti sociali anche vicini al nostro. I suoi racconti ci rammentano quelli di certe donne del Sud impossibilitate spesso ad avere il controllo della propria esistenza, escluse dalla vita sociale e vittime di abusi e sfruttamento.

Barbara Gallo è un fiume in piena di bravura. Riesce a trascinarci nell’intimità di questa donna e nell’immensità del suo dolore mantenendo sempre uno stile recitativo fresco e non cadendo mai nel solito cliché patetico con cui troppo spesso vediamo rappresentate le violenze perpetrate nei confronti delle donne. La sua presenza è vibrante, la sua voce è in continua trasformazione quando tratteggia la corposa galleria di personaggi che popola il suo racconto dando ad ognuno di loro un giudizio inappellabile. Una presenza emozionante, sospesa tra sogno e realtà che un momento è il demone appassionato che irrompe sulla scena col suo carico di angosce, e un altro è la devota mussulmana che recita i novantanove nomi di Dio.

La scena è quasi spoglia, una stanza completamente squarciata dalla guerra. Solo un altare, un ritratto del marito sospeso in aria e un letto nel quale egli giace in coma. Un letto che la protagonista porta in giro attraverso una corda legata al capezzale. Quel marito in coma diventa il luogo dell’azione, lo spazio scenico con cui la donna agisce. In questo senso la scenografia agevola un dialogo altrimenti impossibile tra i due personaggi e si fa drammaturgia.

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