Teatro

La novella “Pensaci Giacomino”, che fa parte della raccolta “La giara” (1927) pubblicata inizialmente nel 1910 sul “Corriere della Sera” e rielaborata per il teatro (prima in siciliano, poi in italiano), verrà portata in scena al Teatro Brancati di Catania,  giovedì 3 Marzo, alle ore 21.00. Con la regia di Giuseppe Romani, con Tuccio Musumeci e Miko Magistro sul palco, la commedia “Pensaci Giacomino” è un esempio di come lo stile di Luigi Pirandello punti ad una rappresentazione della realtà non più concepibile in senso deterministico. In scena Margherita Mignemi, Raniela Ragonese, Olivia Spigarelli, Riccardo Maria Tarci, Agostino Zumbo, Roberta Andronico, Luca Iacono e il piccolo Federico Agosta. Le scene sono di Susanna Messina, i costumi delle Sorelle Rinaldi, la regia, come detto è di Giuseppe Romani. Previste repliche sino al 20 Marzo.

Affascinato dalla scena sin dall’adolescenza, Luigi Pirandello vi approda da protagonista solo nel 1915, sulla soglia dei cinquant’anni, nella sua prima stagione teatrale, quella dialettale, dopo l’insuccesso di “Se non così” (divenuta poi “La ragione degli altri”). Nascevano così, una dopo l’altra, in un fervore creativo straordinario, sul crinale del primo conflitto mondiale, “Pensaci, Giacuminu!”, ’A birritta cu ’i ciancianeddi”, “Liolà”, ’A giarra”, tutte in dialetto e di matrice narrativa. La prosa pirandelliana, d’altronde, inesauribile serbatoio fantastico, intriso della lacerante tensione dell’umorismo, era disponibile al trasloco teatrale per la vistosa dialogicità che l’attraversava.

“Pensaci, Giacuminu!” è la prima commedia scritta, agli inizi del 1916 appositamente per Angelo Musco, tratta dalla novella omonima che, al suo apparire sul “Corriere della Sera” del 23 febbraio 1910, suscitò le “ire” di “timorati lettori”. Con un generoso quanto compromissorio stravolgimento di ruoli, la paradossale soluzione triadica del vecchio, bonario professor Toti scardina la consuetudine maritale borghese; il suo sottile desiderio di vendetta a danno delle istituzioni rivela l’irrisarcibile amarezza di una stanca e frustrata senilità, una straniata filosofia che si traduce in caparbia rivolta quando investe la pudibondagine borghese e l’opinione comune con Platone “più oscura della conoscenza, più luminosa dell’ignoranza”.

Definita “audacissima” dall’autore, “Pensaci, Giacuminu!” fu accolta dalla critica favorevolmente. Il mondo borghese-impiegatizio di “Pensaci, Giacuminu!”, “’A birritta cu ’i ciancianeddi”, “Ccu ’i nguanti gialli”, attraverso l’uso di codici espressivi diversi (un dialetto che ora si offre alla contaminazione della lingua e ora si chiude nella gelosa custodia della propria intimità), manifesta un segreto bisogno di promozione sociale, di credibilità culturale che, venuto meno l’interno dinamismo dialettico, si smorza nella versione in lingua.

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