Teatro

La sfida è ora la più apocalittica delle tragedie del Bardo, Re Lear, anzi “Lear, la storia”. Mariano Rigillo e Giuseppe Dipasquale proseguono la loro collaborazione artistica nel segno di un’altra ambiziosa avventura teatrale, sulla scia del successo nazionale riportato per ben tre stagioni consecutive con “Erano tutti miei figli” di Arthur Miller. Il grande attore napoletano approda al ruolo shakespeariano con l’autorevolezza acquisita in oltre sessant’anni di straordinaria carriera. A sua volta il pluripremiato regista, direttore del Teatro Stabile di Catania, prosegue l’esplorazione dei capisaldi della drammaturgia universale, che nell’ultimo periodo lo ha visto affrontare con profondità testi come “I giganti della montagna” di Pirandello e “Il giardino dei ciliegi” di Cechov.

Di “Lear, la storia” Dipasquale ha curato anche l’adattamento avvalendosi della traduzione di Masolino d’Amico. La nuova coproduzione, realizzata dai Teatri Stabili di Catania e di Napoli, ha debuttato l’1 Aprile al “Verga” in prima nazionale nel capoluogo etneo e sarà quindi in programmazione fino al 17 aprile per poi trasferirsi nella città partenopea al “Mercadante” dal 20 aprile al 1 maggio.

Accanto a Rigillo un cast di qualità che schiera Anna Teresa Rossini (il Matto), Sebastiano Tringali (Gloucester), David Coco (Edmund), Filippo Brazzaventre (Kent), Silvia Siravo (Cordelia), Giorgio Musumeci (Edgar), Luigi Tabita (Regana), Cesare Biondolillo (Re di Francia/Oswald), Enzo Gambino (Curan), Roberto Pappalardo (Goneril). Le scene sono dello stesso Dipasquale in consonanza creativa con le opere in scena realizzate da Angela Gallaro, che ha concepito anche i  costumi. A firmare le musiche è Germano Mazzocchetti, i movimenti scenici Donatella Capraro, le luci Franco Buzzanca.

“Lear – sottolinea Dipasquale – è un ossimoro vivente. Come Giobbe è tragicamente solo sul cammino dell’espiazione del dolore, ma non potrà né salvare se stesso né tantomeno il mondo che inesorabilmente si è incrinato. Perché la sofferenza di Lear ha il suo opposto nella follia del delirio, nella ricerca del lavacro per la sua Ybris. L’abdicazione inscenata come una sorta di ordalia dell’amore delle figlie, è il fatto, in sé semplice, che inaugura la catastrofe del Re Sacro. Egli compie la più banale delle azioni che determinano l’infezione del suo mondo: apre le porte al male. Un mondo che è il suo stesso corpo divino, che egli divide, smembra, dilania nella libido isterica del potere. Lear è parte del male, tanto quanto lo è del bene. Lear è entrambe le facce di una irrisolta divinità. Già dalle prime battute di Kent e Gloucester abbiamo la visione di un re che agisce per predilezione. Eppure Lear si presenta al suo cerchio familiare come un re equo, che vuole dividere in parte eguali il regno. Salvo chiederne in cambio un atto di fede delle figlie. E’ qui l’ossimoro: saggiamente dispotico; umilmente tracotante, euforicamente tragico”.

Il plot principale di Lear e il subplot di Gloucester convergono verso una rovina inesorabile: “La corruttela contagiosa – evidenzia il regista – deriva dal gesto dell’abdicazione, ad uso e consumo dei personaggi assoluti, come in una tragedia greca: Gloucester con Edmund, Lear con Regana e Goneril. Con la divisione del regno esplode anche la patriarcale partenogenesi del potere: una concezione tutta maschile che Lear trasmette alle figlie e le porta fagocitare in sé gli inesistenti consorti, facendosi, esse stesse, maschi e femmine insieme: da qui la scelta dei ruoli che, elisabettianamente,verranno rivestiti da interpreti maschili. L’affermazione catartica del superamento del dolore, che non è proprio una vittoria del bene sul male, avverrà attraverso il sacrificio della morte. Il sangue dei giusti può lavare i peccati del mondo. In ciò può inaspettatamente ravvisarsi una soluzione cristologica del Bardo, che non può essere compresa se non nella visione più laica. Non Cristo come Salvatore del mondo, ma come incarnazione, reificazione dell’uomo nel Divino. Una forma sublime di tracotanza rovesciata: il Dio si fa carne e nello stesso tempo si corrompe in essa. Lear è la carne del divino che sente di essere. L’abdicazione corolla la sua tracotanza: mi spoglio del mio regno – che è il corpo del re – per rendermi solo divino”.

“Dal niente nasce il niente”, sprona il re la reticente Cordelia. L’inganno è già tutto in quella prima scena, conclude Dipasquale: “Lear ha imposto a tutti il gioco dell’abdicazione, sotto forma di rito che non ammette il vero. In questa situazione Cordelia non può esprimersi con la verità che chiede Lear, ma egli non comprende, anzi ne rimane deluso e strappa il velo dell’armonia. La verità è cacciata e il suo carnefice ripone il senso delle cose sulla finzione interessata delle due sorelle. Quando queste riveleranno la loro vera intenzione per il re sarà il vuoto: nulla da colmare con altro nulla, quello del Matto, quello di Kent, quello di Gloucester con Edmund ed Edgar. Perché il Lear è anche una vicenda di padri e figli, dove sempre il tema della verità si consuma per forme tragiche. L’impianto scenico racconterà il determinarsi del vuoto attraverso un muro sacro del pianto che scompare a vista d’occhio”.

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