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La notizia più recente (29 aprile) sul Teatro Stabile di Catania è l’approvazione del bilancio preventivo 2016, seguita alla sospensione di ogni attività, allo sciopero e all’occupazione del “Verga” da parte delle maestranze. L’assessore regionale al Turismo, Anthony Barbagallo, ha manifestato soddisfazione perché gli uffici potranno liquidare l’anticipo del contributo ordinario per l’anno in corso e il pagamento del Furs (Fondo Unico Regionale per lo Spettacolo) 2015.

Intanto, che girandola di medici al capezzale di questa istituzione!  A nessuno, del resto, può essere negata la possibilità di dire la propria, soprattutto a “dotti, medici e sapienti” (Edoardo Bennato, “Burattino senza fili”, 1977). Questa possibilità è esaltata dal proliferare degli strumenti di comunicazione, soprattutto, di quei “cortili” chiamati “social”.

Il "Verga" di Catania chiuso...

Il “Verga” di Catania chiuso…

La paura che quella che, per tanti, è stata una “minna” più o meno generosa, stia avviandosi a irreversibile prosciugamento, mette inquietudine e crea non del tutto incolpevoli amnesie. Ipotesi alternativa: la speranza che una nuova gravidanza possa produrre altro latte e, dunque, induca a progetti tattico-strategici anticipati dal bla-bla.

Catania è la città delle antonomasie: ‘a Santa, ‘a Muntagna, ‘u Giurnali (non quello di Milano); e c’è  «‘u Tiatru». Anche per la parte chic (e/o radical chic) della Cultura catanese «‘u Tiatru» è lo Stabile, in cui qualcuno ha anche svolto qualche importante ruolo e alle cui eleganti “prime” quasi tutti hanno sempre fruito del posto “riservato”.

Ma il “vero” teatro a Catania non è mai stato “Quello” o, almeno, non soltanto quello; neanche quando c’era Mario Giusti, che sicuramente è stato il migliore fra tutti i direttori artistici che si sono succeduti. Per la cronaca va ricordato che egli non era stato “chiamato”, “eletto” o “incaricato”; formalmente, forse, sì, perché – come gridava Fernandel a Totò – «La loi… c’est la loi». Non mi risulta, però, che avesse vinto alcun concorso, partecipato a selezioni, risposto ad alcun bando o presentato alcun curriculum; era semplicemente uno dei genitori e come tale si è comportato sino alla fine dei giorni.

Né ad alcuno dei “disinteressati” commentatori che – nel migliore dei casi – esprimono indignazione e ripropongono la memoria di questo o quel “grande”, torna in mente  che accanto al direttore-fondatore operò – anch’egli sino alla fine – un uomo “pratico”, ma indispensabile, come Pippo Meli.

Tornando al panorama complessivo e reale del teatro catanese si ha l’obbligo di rimarcare che – accanto a un’innumerevole quantità di filodrammatiche o gruppi amatoriali, la cui rilevanza erroneamente è sottovaluta – c’è sempre stato anche un proliferare di realtà piccole, minuscole ed orgogliosamente “differenti”, capaci di esprimere critiche che ancor oggi hanno il sapore dell’attualità. Chi dice adesso le cose già dette venti/trenta e più anni addietro è convinto di essere originale; lo è per ignoranza, semplicemente per carenza di conoscenza; oppure per sordità: quella di adesso (poca attenzione per la storia) sommata a quella di allora, quando o aveva ancora la peluria e i brufoli della pubertà  o non trovava il tempo e l’interesse per guardarsi attorno, essendo troppo impegnato a “costruirsi”.

Il Teatro Gamma a Piazzale Asia nel 1978 (Ph. Salvo Nicotra)

Il Teatro Gamma a Piazzale Asia nel 1978 (Ph. Salvo Nicotra)

Ricordo quando, nel 1979, Roberto Benigni, ospite del Teatro Gamma di piazzale Asia (prima della diaspora; chi se ne ricorda? Dove adesso sorgono “Le Ciminiere”) da noi catechizzato, s’inventò un intero monologo sull’“instabilità e sugli altri mali” del Teatro Stabile. Il “noi” comprendeva tanti giovani operatori entusiasti di allora; c’erano – tra i tanti – Lucio Volino, Filippo Aricò, Francesca Cucurullo, Rocco Pirrone, Arturo Pellegrino; c’era, ovviamente anche Gianni Scuto e c’era il sottoscritto. Il pubblico andò in visibilio.

Rappresentavamo una parte della parte più creativa ed effervescente del teatro catanese, cui – ritenevamo – si opponesse l’aria stantia dell’istituzione. Del resto era il tempo in cui dappertutto confliggevano l’opulenza dei mezzi a disposizione (dei teatri stabili, appunto, o dei Ronconi) e l’autoproduzione – povera di mezzi ma ricca di idee – delle realtà “di base”. A Catania, solo per citarne qualcun altro, operavano Nuccio Caudullo, Maria Campagna, Mario Bonica, Filippo Manno…

Custodisco ancora gelosamente una “striscia”, disegnata da Alfredo Chiappori (altro “desaparecido”) e pubblicata sul n. 6 della rivista “Teatro Festival” (dicembre-gennaio 1986; Ugo Volli direttore) che esprimeva la posizione della cultura teatrale italiana (anche dell’accademia, di quella viva) sulla mancanza di dinamismo e di creatività dei teatri stabili.

Nulla di nuovo sotto il sole? Oppure, tutti i nodi vengono al pettine?

Temo che nell’aria ci sia qualcosa di meno profumato; temo che pochi oggi parlino (e scrivano) disinteressatamente. Neanche io. Ovviamente, ci sono i sacrosanti problemi del lavoro e dei dipendenti dell’ente. C’è la solidarietà, che è un valore insostituibile nel mondo del lavoro; la sua assenza produce guasti irreparabili. Non si può negarla a loro come non si può negarla, ad esempio, a quelle donne che sono state costrette dall’imbecillità di altre donne a continuare il lavoro per molti anni oltre a quelli prima previsti, in virtù di una legge che non ha avuto rispetto né per i “diritti acquisiti” né per la condizione del doppio lavoro cui la donna – checché se ne dica – è impegnata nella nostra società; per salvare la patria… ovviamente! Ma quanti di questi lavoratori del “Teatro” e dei loro “avvocati difensori” si sono preoccupati (e si preoccupano) dei diritti calpestati degli altri lavoratori e delle altre lavoratrici (in genere) e di quelli/e – tantissimi/e – delle compagnie non “istituzionalizzate”? Quanti fra i “summenzionati” considerano come compagni (o colleghi) – condividendone ansie e acre disperazione – i tanti “illusi” sfornati dalla scuola dello stesso Stabile (come spesso rileva Elio Gimbo) e finiti fra i non occupati, i sottoccupati o disoccupati?

E quanti dei cosiddetti intellettuali – o sedicenti tali – si prendono la briga di analizzare il problema nella sua complessità? Dotti, medici e sapienti… Ah, è vero, qualche settimana addietro qualcosa è avvenuto, ma già l’eco si sta affievolendo. Credo che sia ghiotta materia per continuare il discorso.

Salvo Nicotra

Salvo Nicotra

Salvo Nicotra si è occupato di tante di quelle cose che è come se non si fosse occupato di nulla… Laurea in Lettere all’Università di Torino con tesi sull’attualità del Teatro dei Pupi siciliani, regista teatrale e uomo di cultura e di sport, ha collaborato sin dalla (lontana) giovinezza con numerose testate giornalistiche; nella “precedente vita” è stato lavoratore pubblico e dirigente sindacale.

 

2 commenti

  1. Felici di constatare che testa e cuore continuano a funzionare, con tanto di sale e pepe e “spezie” varie e piccanti, come l’amore per il teatro e la cultura e la non-subalternità di un dna nient’affatto rincoglionito o arruginito o annacquato… Salvo c’è, più agguerrito e “scomodo” che mai!

  2. Che i tempi siano cambiati lo dimostra l’assemblea convocata da Antonio Di Grado: non ci sono i giovani che s’inventano una cantina, un garage e con una sedia ed una panca si mettano a recitare Artaud. Che il futuro del teatro catanese sia affidato a dei giovani sessantenni è un frutto di una realtà distorta, dove il Teatro stabile è stato per quarant’anni uno stipendificio e i politici dicevano: ora ti piazzo allo Stabile, o al Massimo. Fatto sta che quei sessantenni che dovrebbero stare ai posti di comando per quel che hanno fatto e prodotto, sono tornati nelle cantine, e altrove c’è il vuoto, il nulla

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