Il Teatro Erwin Piscator, Scene contemporanee 2016 e Compagnia Fabbricateatro mettono in scena al Teatro Piscatori di Catania, in via Sassari 116, il 15, 16 e 22 e 23 Ottobre (sabato ore 21.00 e domenica ore 18.00), “Finale di partita” di Samuel Beckett, con Antonio Caruso, Antonio Starrantino, Daniele Scalia e Sabrina Tellico, costumi e assistenza alla regia Donatella Marù. Regia di Elio Gimbo.

La locandina dello spettacolo
A presentare il lavoro è lo stesso regista Elio Gimbo, in una sua nota: “Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio”. – Samuel Beckett; “…i personaggi di Beckett sono creature schiacciate dalla dannazione tutta umana di dover pensare solo parole…” – Giuseppe Di Martino.
Ma chi era veramente Samuel Beckett? La sua biografia è ricca di un’aneddotica leggendaria: dal rifiuto del corteggiamento spinto di Lucia Joyce negli anni dell’apprendistato parigino con il padre James, all’accoltellamento subito da un magnaccia chiamato “Prudent” il quale, durante il processo, alla domanda della vittima sul perché dell’aggressione rispose: “non ho idea, signore”, dalla sua poco conosciuta adesione alla resistenza francese fino alla ricerca, nella notte parigina, di bicarbonato da portare ad Harold Pinter che, ignaro, lo aspettava in un ristorante in preda ad una indigestione da zuppa di cipolle. Samuel Beckett fu un filosofo coerente con la propria filosofia, uno scrittore coerente con la propria scrittura, un regista coerente con il proprio teatro.
Un uomo il cui nome divenne un aggettivo
“Beckettiano” indica una particolare atmosfera surreale e rarefatta intrisa di un fondamentale pessimismo filosofico; il destino di coniare un aggettivo dal proprio cognome appartiene a pochi autori di teatro: Shakespeare, Brecht, Pinter… Mi domando, qual è l’essenza del mettere in scena Beckett al giorno d’oggi in un’epoca così incerta, piena di guerre e catastrofi sociali? Leggendo oggi il suo teatro si prova davvero la vertigine della profezia su un genere umano inconsapevole di essere travolto dai propri stessi meccanismi evolutivi, espressa con un linguaggio teatrale dove la macchina simbolica schiaccia con una spietata comprensibilità. Mi guida la voglia di costruire una metafora del mondo contemporaneo? Un’ambizione da regista? Semplici motivazioni occasionali e personali? Il desiderio di collezionare l’ennesima “prima volta”? Il mio “primo” Shakespeare… il mio “primo” Brecht… il mio “primo” Pinter…
“Finale di partita” è una straordinaria rappresentazione dell’illusione umana, pur di fronte ad evidenti fallimenti, che l’esistenza abbia un implicito significato positivo, la messa a nudo del ridicolo di un uomo che si ritiene dominatore della natura. “Finale di partita” è un testo potente come un’arma nucleare, enigmatico, affascinante e fragile come un raffinatissimo mandala di sabbia, in fin dei conti chiaro fino alla brutalità sia nelle premesse che nelle conseguenze.
Samuel Beckett era mio zio
Non occorre scomodare il celebre saggio di Adorno su “Finale di partita” o quello di Kott, per comprendere la schiacciante portata filosofica di questo testo, diremo soltanto che con esso -insieme ad “Aspettando Godot” e “Giorni felici”– Beckett porta a compimento ed esaurisce l’epoca iniziata circa un secolo prima con Ibsen del teatro di parola, ossia della centralità dell’autore e del testo nell’azione teatrale: il teatro “per” il testo. Dopo Beckett il teatro non ha più conosciuto un’esperienza drammaturgica in grado di imporsi sulla tecnica degli attori; con Beckett e a mio avviso con lucida consapevolezza da parte sua, inizia l’epoca attuale del teatro di regia, del teatro “con” il testo: il teatro a cui appartengo. Non a caso vige ancora il suo lascito di una messa in scena rigorosa e completa di battute e didascalie; i testi di Samuel Beckett sono quaderni di regia con annessa drammaturgia. Questo particolare me lo fa sentire come un nobile consanguineo consapevole del futuro della famiglia d’appartenenza. In realtà, dopo la stagione dei grandi capolavori citati, Beckett scrisse poco o nulla per il teatro, scelse di attraversare l’intero universo della comunicazione occupandosi di radio, televisione, cinema, almeno fino al Nobel del ’69. Dopo tornò al teatro soprattutto come regista di un gruppo teatrale americano di ex carcerati della prigione di San Quentin.

Il regista Elio Gimbo
Samuel Beckett era un maestro eretico
Mi hanno sempre affascinato i grandi nichilisti della letteratura -l’ultima composizione del mio gruppo Fabbricateatro ha affrontato un testo minore di Leopardi-, Anatole France scrisse: “mi rifiuto di pensare che il culmine dell’universo sia un piccolo pianeta periferico dove vige la legge del mangiarsi tra specie viventi”; Franz Kafka ci ha raccontato, oltre un secolo fa, l’angoscia determinata dalle nostre superstizioni culturali ed esistenziali, dal crederci artefici di un destino personale o collettivo, dal crederci la punta più alta di una pretesa evoluzione del Creato. Perciò ho sempre pensato a Beckett come ad un appuntamento inevitabile della mia vita da regista, un appuntamento da rispettare non appena se ne determinassero le condizioni. Questo spettacolo è un magnifico appuntamento onorato da un prezioso ritardo. Come in un racconto di Dostojevski per me c’è un ritorno a casa: il teatro Piscator è, letteralmente, il luogo in cui ho consumato il mio primo giorno nel teatro: qui organizzai il mio primo recital d’attore nel 1981, qui composi le mie prime regie fra il ’91 e il ’93. Oggi, nella stagione della maturità e delle consapevolezze, celebro questo teatro e i suoi artefici storici diventato, in questo tsunami che investe i luoghi cittadini dello spettacolo, la sala più longeva della città con oltre 40 anni di attività. Onoro poi un altro appuntamento, quello con gli attori: con Sabrina Tellico e Daniele Scalia, Nell e Nagg, mi lega un lungo sodalizio all’interno di Fabbricateatro. Ma realizzare “Finale di partita” vuol dire incontrare Hamm e Clov: Antonio Caruso e Antonio Starrantino, vale a dire una coppia di attori con una biografia magica in grado di interpretare la coppia protagonista: qualcosa di paragonabile a Rick Cluchey e Bud Thorpe, gli attori di Beckett. Ad Antonio Caruso mi unisce il passato da vecchi allievi negli anni ’80 di Giuseppe Di Martino alla scuola del Teatro Stabile; siamo stati probabilmente i soli eretici di quella esperienza, i soli ad interpretare quegli insegnamenti alla ricerca di un teatro che fosse profondamente nostro anziché di qualcun altro, anziché del mercato, di un teatro che fosse ricerca esistenziale piuttosto che ricerca di un lavoro salariato. Un eretico o muore nel cammino o incontra un altro eretico che, partito dalla stessa città in fiamme, ha percorso solitario come te un diverso sentiero e, dopo anni, è disposto a confondere con i tuoi i propri ricordi sulla città bruciata: su chi c’era e su chi non c’è più, su chi poteva e su chi potrebbe esserci nel cammino futuro. Ogni Guglielmo da Baskerville cammina con il proprio Adso, Antonio Starrantino è questo per Antonio Caruso a dimostrazione di come la ricchezza pedagogica nel teatro catanese sia dovuta proprio a straordinarie forme di eresia. Il mio auspicio è quello di continuare insieme il cammino verso la nostra utopia. Sono loro i quattro ineffabili strumenti di questa rapsodia del genere umano intitolata “Finale di partita”.