Cultura

In tanti hanno scritto su Vincenzo Bellini, ma sicuramente questa pagina poetica del m° Francesco Pastura, tratta dalla raccolta di canti “Mandrerosse, paesaggi, uomini e canti di Libertinia”, è una delle più toccanti perché, attraverso le parole semplici dei contadini e dei pastori della Piana, lascia trasparire il grande amore dei catanesi per questo illustre concittadino.

VINCENZO BELLINI di Francesco Pastura

“Ascolta o Bellini, fratello in S. Agata e in Catania nostra, ascolta come un vecchio catanese racconta la leggenda della tua vita ai contadini, stesi a riposare sull’aia.

 Nacque tra i dirupi del teatro greco, un teatro sull’onor mio che fu fatto in un’epoca più antica di quella dei saraceni. Nacque come un fiore di garofano dentro una grasta di basilicò. Lo battezzarono nella chiesa dei gesuiti, quella dopo l’arco di S. Benedetto, e lo chiamarono ‘Nzuddu come suo nonno.

   Fin da quando era in fasce, si capì, era cosa santa. La sua culla odorava di gelsomino d’Arabia e ogni notte gli angeli scendevano dal cielo e gli venivano a cantare la vo vò. Questo bambino era nato per la musica. Quando sentiva cantare, anche se aveva la minna in bocca, sollevava la testuccia ed ascoltava. Poi quando il canto cessava si metteva a piangere. Nemmeno era cominciato a crescere che si mise a suonare il cembalo, senza che nessuno glielo insegnasse. E suo nonno che era maestro di musica, di quelli buoni, gli fece scuola. Ma quando il bambino ebbe cinque annuzzi non ebbe più cosa imparare. E una sera, nella chiesa dei Minoriti, quella della strada dritta, strappò di mano al nonno la bacchetta e si mise a battere la musica. I suonatori restarono con tanto di bocca aperta.

   Dove arrivava suonava qualunque strumento vedesse. Suonò pure l’organo di S. Nicola, quello grande e per suonarlo non so quante persone ci vogliono. Poi cominciò ad inventare musica di testa sua. Una musica che pareva scesa dal paradiso tanto era bella. E certo chi poteva sapere che gliela dettavano gli angeli la notte? A sei anni, ne sapeva più di suo padre e di suo nonno e andava a suonare nelle chiese.

   In quell’epoca il principe di Biscari teneva sempre festini nel suo palazzo, quello che è dietro la badia di S. Placido e faceva fare anche il teatro in musica a casa sua. Il bambino vi fu condotto dal nonno che era di casa con i signoroni di Catania. Mano con mano lo accompagnò. Arrivato là, lo fecero suonare. Non vi so dire i grandi apprositi di tutti quei nobiloni che se lo mangiarono di baci e gli diedero tanti di quei complimenti che il bambino non seppe più dove metterseli. Insomma, non si faceva festa né nelle chiese né nelle case ricche senza che non venisse chiamato per suonare Nzuduzzo Bellini. Tuttavia tutta Catania lo portava in palma di mano. E tutti i catanesi lo acclamavano come il messia.

   Quando diventò picciotto, don Saro, suo padre, disse a tutti quei nobili signoroni che se lo chiamavano in casa “Signori miei, io non ce la faccio a mantenerlo perché ho famiglia grande! Se voi volete che diventi qualche cosa, mantenetelo voi. L’onore sarà vostro e di Catania!”. Gli parlava il cuore, poveretto. E tutti quei pezzi grossi si riunirono al municipio e gli diedero una somma per mantenersi agli studi fuori regno.

   E una mattina Bellini partì dalla Porta di Aci per andare a Napoli. La Montagna pareva lo sapesse. Sbottò fuoco da tutte le parti, lo salutava per l’ultima volta perché da quel giorno l’abbiamo perduto per sempre, figlio mio! Ce lo rubarono, signori miei! E rubato ci sembra un picciotto come lui, sano, pieno di vita che parte per non tornare più. Non ho ragione? E Catania, che lo vide nascere e che lo covò col fiato, briciola a briciola, lo allevò non per sé ma per gli altri. Dal giorno che partì, Bellini non fu più nostro. Fu di tutti.

   Scrisse opere in musica che fecero scimunire tutto il mondo per la gran musica che ci mise e che fa toccare e vedere il paradiso con tutti: santi e Dominidio. Ma che ce ne importa a noi catanesi? Egli partì e si portò il nostro canto nel suo cuore e lo diede agli altri. Se fosse rimasto, l’avrebbe dato soltanto a noi. Catania sola poteva fare questo gran regalo al mondo perché queste cose solo in questa terra nascono. E poi era bello! Benedetta quella mamma che lo fece! Era biondo come quel frumento là, aveva gli occhi come il mare di Ognina durante un mezzogiorno di agosto. Ed era alto come una bandiera. Ce lo rubarono quant’è vero Iddio!

   E poi lo avvelenarono per gelosia, a Parigi. Con i Puritani mise la rivoluzione in quella terra. E il re per levarselo dai piedi gli mandò un mellone avvelenato. Bellini lo mangiò e morì la per là. E a noi catanesi toccò la pena grande di saperlo morto lontano da noi, senza che nessuno potesse correre a salvarlo che a quei tempi questi treni, questi aeroplani, questi diavoli di telefoni e di radio non c’erano. Se no, tutti saremo volati! Catania sarebbe restata spopolata, ma non sarebbe morto Bellini.  E il cuore avremmo mangiato a quei parigini. Moriva se fosse rimasto a Catania? No! E che morte, figlio dell’anima mia, che morte! Solo come un cane, come uno di sotto gli archi della Marina che è senza madre e senza padre. Solo! Ah in nome di Dio!

   Ma ci pensò Dominiddio a confortarlo. Gli mandò vicino al letto S. Agatuzza bedda che l’assistè come una madre e come una sorella durante l’agonìa e gli disse “Non ti spaventare, io ci sono qua”. E lui come la vide ci sorrise e spirò quieto. E allora la santuzza nostra se lo prese per mano e se lo portò volando sopra Catania e gli fece vedere la sua città e la sua casa per l’ultima volta. E quegli ucchiuzzi rari videro ancora il mare di Catania da Ognina alla Plaia, videro le chiese, i giardini pieni di zagara e la Piana grande e il Simeto e la Montagna. Poi s. Agata se lo portò dritto dritto in paradiso. Quarant’anni dovemmo aspettare per vederlo tornare. Ma tornò morto dentro la bara. Dentro la bara tornò. Ora è là nella cattedrale, vicino a S. Agata. Che ci aspettano per farlo santo?”

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