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Per i soldati italiani, i nostri cari “fanti”, in trincea dalla tarda primavera del 1915, quello di un secolo fa fu il primo Natale della grande guerra che aveva iniziato ad insanguinare ferocemente l’Europa da più di un anno. La popolare e familiare ricorrenza della Nascita di Gesù fu uno dei momenti più tristi di quell’anno che non avrebbe visto, purtroppo, la conclusione dell’immane conflitto, dalla propaganda preventivato breve e vittorioso.

I nostri soldati al fronte, in quel Natale freddo e lontano da casa, avvertirono più acuta del solito la nostalgia del focolare domestico e degli affetti familiari. Emblematica, drammatica e commovente è una lettera dalla zona di guerra del 26 dicembre 1915 riportata a pag.141 del volume “Catania e la grande guerra” a cura di Giuseppe Barone (Bonanno editore, 2014), che contiene uno struggente particolare, che mette in evidenza la tragica e barbara pazzia della guerra fratricida e la sempre tradita aspirazione alla pace dei popoli di nazioni di tradizione cristiana: “Ieri, giorno di Natale, in un punto in cui le nostre trincee di prima linea sono vicinissime, austriaci ed italiani, sono usciti fuori dalle trincee, ed abbracciandosi hanno inneggiato al Natale ed alla pace futura. Pochi minuti dopo, rientrati in trincea, si sono fucilati a vicenda come cani…Noi qui si prepara una festicciuola; non mancherà…il pollo, il dolce raffinato…., l’eccellente sciampagne!”. E’ evidente che i piccoli lussi alimentari rendevano più sopportabili le atrocità della guerra.

 Nel saggio “Mi pare di parlare a voce assieme” di Alessia Facineroso, inserito nel volume sopracitato, si legge che nel dicembre del 1915 “gli eserciti di tutte le nazionalità, e di ogni schieramento, scelgono di abitare, insieme, la terra di nessuno per i brevi attimi di tregua dai combattimenti: è una forma di resistenza al conflitto, la loro, che la convinzione di una pace vicina riesce ancora ad attenuare”.

Sarebbe passato un altro buio anno di guerra e sarebbe arrivato il nuovo Natale allorché i nostri soldati si sarebbero accorti di come la situazione era alquanto mutata: le trincee si erano spostate in avanti di qualche chilometro ma i fanti vi marcivano rintanati chissà per quanto tempo ancora per affrontare “altre battaglie e nuovi assalti”. I congedi, per ordine del capo di stato maggiore generale Luigi Cadorna, erano stati sospesi a tempo indeterminato per timore che aumentassero i casi di diserzione e gli effetti “devastanti” che i racconti dei militari in congedo potevano ancor più produrre sul fronte interno.

Anche la censura divenne sempre più rigida e capillare a tal punto che ai soldati fu permessa solo una corrispondenza epistolare in codice linguistico predefinito, imposto dai comandanti dei reggimenti. Alla redazione del “Giornale dell’Isola” di Catania arrivavano lettere “cifrate” di alcuni soldati catanesi contenenti poesie o racconti inseriti dal quotidiano, al quale collaboravano scrittori quali Federico De Roberto e Giuseppe Villaroel, in un inserto del 24 dicembre 1916 intitolato “Natale di guerra”.

Ecco, a proposito di un presepe allestito in trincea in segno di perdono, una frase molto allusiva: “Oh, non per questo, Santo Bambino, tu nascesti al mondo!”, mentre nei “diari” dei soldati che sapevano scrivere rimangono chiaramente indelebili i sentimenti “vietati” dalle autorità militari e che mettono a nudo la tragicità del conflitto: “Questo è senza dubbio il più triste Natale della mia vita…il paesaggio è lugubre e pieno di ricordi delle tragiche lotte”.

Antonino Blandini

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