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Partirà stasera, venerdì 16 Novembre alle ore 21.00 nella Sala Giuseppe Di Martino, via Caronda 82, a Catania, la nuova stagione del Centro Teatrale Fabbricateatro del regista Elio Gimbo e del presidente Daniele Scalia. Ad aprire il cartellone di cinque spettacoli, l’atto unico “Il Dottor Di Martino è desiderato al telefono”, un omaggio al regista a cui Fabbricateatro ha intitolato sala al chiuso: Giuseppe Di Martino, storico direttore della scuola per attori “Umberto Spadaro” di Catania. L’idea dello spettacolo ruota attorno al secondo de “I dialoghi mancati” di Antonio Tabucchi, infatti un anno fa con “Alla fine del tempo” il regista Elio Gimbo ha lavorato al primo dei dialoghi e quest’anno si voleva chiudere anche questo cerchio.

Locandina “Il Dott. Di Martino è desiderato al telefono”

La pièce – con Sabrina Tellico, Cinzia Caminiti, Daniele Scalia e Salvatore Pappalardo – vede sulla scena di Bernardo Perrone, con le musiche originali cantate da Cinzia Caminiti, tre artisti di strada, una cantante, un’attrice ed un anziano mandolinista cieco impegnati a trovare le parole teatrali adatte ad intrattenere, in una clinica psichiatrica, un unico paziente che è tutto il loro pubblico. Lo “spettacolo dello spettacolo” si tramuta in una confessione giocata sul filo della poesia e del “teatro per il teatro”. Drammaturgia e regia di Elio Gimbo, repliche il 17, 18 e 23, 24 e 25 Novembre – ore 21.00 e 18.00. Info e prenotazioni: 347.3637379.

“A Fabbricateatro – spiega il regista Elio Gimboamiamo la circolarità. Se iniziamo un percorso tendiamo sempre a portarlo a compimento definitivo. Questo nuovo spettacolo conclude il confronto, aperto esattamente un anno fa con “Alla fine del tempo”, con i due “Dialoghi mancati” di Antonio Tabucchi. La circolarità non risiede soltanto nella scelta drammaturgica ma anche nella scelta visiva compiuta insieme a Bernardo Perrone, il realizzatore dei nostri impianti scenici, che sviluppa ulteriormente quella che chiamiamo “la scatola bianca”. E’ uno spettacolo che fin dal titolo cita il nome di colui che per molti anni fu il dominus della scuola del teatro Stabile di Catania; in questa veste fu il mio primo Maestro e lo fu altrettanto per intere generazioni di attori del teatro cittadino, in questo senso la sua influenza sul teatro catanese è tuttora vivissima. Proprio a lui, più di un anno fa, intitolammo la nostra sala teatrale contribuendo forse a colmare un vuoto di memoria ufficiale ma anche obbedendo ad un impulso intimo”.

Attori e regista sulla scena (Ph. Ufficio stampa)

“Del testo di Tabucchi abbiamo accolto – continua il regista –un analogo processo d’inversione; la drammaturgia non rende omaggio ad un Maestro, piuttosto riflette sull’esigenza di averne uno e sulla nostalgia di non averlo mai incontrato; penso a quanto questa nostalgia sia oggi sentimento diffuso, non soltanto fra i giovani che s’incamminano sulla strada del mestiere teatrale, ma proprio nell’intera società. Ho immaginato uno spettacolo forse “metateatrale”: un attore-attrice, una cantante muta, un musicista cieco sono i componenti di un gruppo alle prese con il loro spettacolo da svolgere all’interno di una clinica psichiatrica per un solo paziente-spettatore. E’ perfino ovvio immaginare le equazioni metaforiche “clinica-sala teatrale” e “paziente-spettatori” e tali metafore sono certamente presenti in questa nostra ultima creazione 2018: la rappresentazione del mestiere del teatro nel nostro tempo. Tuttavia i miei impulsi più intimi si condensano in due semplici parole: origine e tradizione. Per ognuno di noi porsi domande sulle proprie origini significa ritrovare il filo rosso che unisce gli eventi della vita, ristabilire un ordine. Però preferisco nutrire la fantasia e di alterare la cronologia, l’ordine che sembra descrivere la mia esistenza. Credo che l’origine sia innanzitutto uno stato mentale, indica la transizione piuttosto che l’immobilità, l’impulso all’incontro con lo straniero fuori e dentro di me; l’origine è l’istinto a separarsi dalla casa natale, dalle pratiche dei genitori, dai criteri che un tempo riempirono di senso i miei atti e le mie scelte come fare teatro; l’origine è il gusto del rischio che ti fa viaggiare senza lasciare casa, che ti fa sentire a casa soltanto in una sala teatrale; l’origine non è qualcosa o qualcuno da cui ti sei allontanato, è quel groviglio di forze a cui ti sei ostinato a restare vicino. Analoga riflessione mi si affaccia in testa da qualche tempo sulla parola tradizione. Il concetto di “tradizione” è ambiguo; in apparenza si riferisce al passato, in realtà è sempre una creazione a posteriori, è costituita dalle persone e dalle storie in cui ci riconosciamo pur allontanandocene nel tempo, accettandone e trasformandone l’eredità; il teatro è una forma d’essere e di reagire alla Storia, è tradizione e invenzione di tradizione.

I protagonisti di “Il Dottor Di Martino è desiderato al telefono” (Ph. Ufficio stampa)

Dda questi nodi infuocati sento provenire oggi i miei pensieri su Giuseppe Di Martino e su questo spettacolo e il mio desiderio silenzioso di reincarnare, grazie agli attori, stili, figure, tecniche, funzioni espressive che mi hanno illuminato nel corso della vita, i lampi nella notte da cui provengo, da Di Martino al Living theatre, da Anita Laurenzi a Julia Varley, dal Saro Coniglione di Martoglio amore mio (1981) al Toni Servillo di Rasoi (1993), da Alfio Maugeri a Turi Pappalardo che ne prende idealmente il posto e che da oggi accogliamo nella famiglia di Fabbricateatro. Tutto il teatro del nostro tempo è un fenomeno arcaico; e in questa nostra arte così nobile c’è un modo di essere ancora più arcaico che sento profondamente mio: l’ansia di trascendere il teatro. La rivolta nel teatro è continuare un sogno arcaico attivamente e lucidamente, evitando che il sogno diventi monumento o rimpianto”.

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