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Una vera e propria fotografia. Una istantanea cruda, reale, di una situazione, di un modo di essere, del vissuto di alcuni ragazzi dei quartieri che abitano la Catania del 2020, città osannata, acclamata ed adorata, in cui si mescolano abitudini, bellezze architettoniche, esaltazioni e contraddizioni. Sto parlando della novità dell’attrice catanese Roberta Amato, “I Moschettieri”, con la regia di Nicola Alberto Orofino, che abbiamo seguito a Catania, al Palazzo della Cultura, lo scorso 26 agosto, all’interno della rassegna estiva “Catania Summer Fest 2021”.

L’argomento trattato nel testo è forte e di estrema importanza sociale, ma il testo – in tutta la sua crudezza e realtà dei fatti e dei personaggi narrati – non rientra secondo me nei testi di denuncia, ma ho trovato nella scrittura e nella messa in scena una forte rabbia nel voler raccontare e rappresentare una città diversa da tutte le altre, puttana, ammaliatrice, ruffiana, così come parte dei suoi abitanti Quei catanesi, come dice la stessa autrice, che vivono sempre “con un piede nella fossa e l’altro sospeso nel sogno”.

I quattro protagonisti – Foto Santo D’Olica

L’atto unico, di circa 80 minuti, inquadra, quindi, una precisa realtà, ovvero la vita dissennata, senza vie d’uscita di tre giovani – simili a tanti altri – di una periferia, di una parte della città che vive in un certo modo. Che ama, che scommette, che delinque, che sogna e desidera in un solo modo, che non conosce o non può conoscere altre alternative, altra occupazione, se non quella “di fare soldi”, a qualunque prezzo, in qualsiasi modo, oscurando, rimuovendo, le proprie umili e difficili origini.

Protagonisti dell’atto unico sono la Regina ammaliatrice Catania e tre baldi giovani di quartiere (Bummacaro, Moncada e Nitta), che prendono il nome dei tre vialoni del quartiere satellite Librino, che vivono o meglio bruciano le loro esistenze tra spaccio, prostituzione, scippi, violenze di ogni genere in nome del Dio Denaro. Il loro unico scopo è “fare soldi” e non c’è posto per libri, istruzione o rimpianti di un passato familiare fatto di rinunce, sacrifici e privazioni. A governare e benedire il cammino di Bummacaro, Moncada e Nitta, come una sorta di amministratrice occulta, temuta, amata, c’è la Regina e pupara dei quartieri catanesi, c’è sua Maestà Catania, riverita in nome di una anelata condizione di agio, tra Suv, locali di lusso, champagne, donne ed un machismo sempre più sfrenato, dove non ci può essere posto per altri valori, per l’amore pulito, per la comprensione, per il ragionamento. In 80 minuti si condensa quindi uno stato d’animo, una illusione, un modo di vivere radicato, un amore sviscerato per gli angoli più nascosti della città dell’Elefante, una devozione esaltata, convinta, per la sua “Santuzza”, per certe abitudini e quartieri e per la squadra calcistica del cuore dai colori rossazzurri. Un affesco drammatico, poetico, di un vissuto irredimibile, oltre ogni limite, perché come dice il testo, il catanese va sempre oltre, non si ferma, azzarda e poi è orgoglioso di quello che ha fatto, non ha tempo per ripensamenti o altro.

In scena Egle Doria

E nel testo, nello spettacolo, non c’è un lieto fine, non c’è una speranza di cambiamento o di ribellione. Il testo di Roberta Amato è ricco di spunti, con un linguaggio spontaneo e crudo, che non concede spazio ad alternative o cambi di rotta. Quello che rimane per il pubblico è una tragica presa d’atto, un pugno nello stomaco e l’amaro in bocca, infatti non si legge, non si avverte, non si intravede, dall’inizio alla fine, nessun filo di speranza,  di redenzione, di pentimento o di rinascita per la città e per i suoi giovani figli.

Lo spettacolo, coraggioso, spregiudicato, sicuramente è ancora da affinare e rendere più completo e, per certi versi, denota la mancanza di un preciso sviluppo drammaturgico, ma è diretto col solito piglio fantasioso da Nicola Alberto Orofino e gli interpreti danno il massimo. Intensa Egle Doria nei panni della fascinosa e temuta sua Maestà Catania, scatenati nei gesti e nel linguaggio i tre giovani protagonisti (Gianmarco Arcadipane, Vincenzo Ricca e Luigi Nicotra), abili nel raccontare il proprio presente, le proprie aspirazioni, le passioni calcistiche, le imprese con le donne, i rimpianti per una vita diversa. La scena, una sorta di stanzone-capannone-bunker, con pochi oggetti (una vecchia scrivania con le foto di Sant’Agata e del “Liotru” simbolo di Catania, una sedia, dei materassi-cuscini, bottiglie, un tavolinetto) ed i costumi, volutamente esagerati, confusi e sparsi intorno, sono curati da Vincenzo la Mendola.    

Pubblico divertito, frastornato, interessato e che, alla fine, ha applaudito, riflettendo e ritrovando, con amarezza, sulla scena quegli aspetti purtroppo familiari, drammatici e quel disagio, quella criminalità di tutti i giorni presenti nei quartieri periferici della città e che, ieri come oggi, vede protagonisti proprio i più giovani che trovano nell’illegalità, all’insegna di un falso benessere, lo scopo della loro vita.

Finale con interpreti, autrice, regista e scenografo e costumista

Scheda

I Moschettieri

di Roberta Amato      

Regia di Nicola Alberto Orofino  

con Egle Doria, Gianmarco Arcadipane, Luigi Nicotra e Vincenzo Ricca                                                                                                      

Scene e costumi Vincenzo La Mendola     

Assistente alla regia Gabriella Caltabiano                               

Sarta Grazia Cassetti                                                                                                       

Progetto grafico Maria Grazia Marano   

Segretario di compagnia Filippo Trepepi

Organizzazione Maria Grazia Pitronaci

Amministrazione Federica Buscemi                                                        

Produzione Associazione culturale Madè

Progetto fotografico Santo D’Olica

Palazzo della Cultura Catania – 26 Agosto 2021

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