Intervista con...Rubriche

I catanesi l’hanno applaudita la scorsa estate nell’ambito del cartellone del Teatro Stabile di Catania “Evasioni” con il suo suggestivo spettacolo “Pinocchio”, un testo inedito di Franco Scaldati. Adesso è in frenetica attività, tra mille progetti in corso ed in cantiere. Sto parlando della regista, attrice, insegnante e drammaturga siciliana, Livia Gionfrida che vive attualmente a Prato, in Toscana, dove ha fondato nel 2006 il collettivo Teatro Metropopolare. La sua formazione teatrale è iniziata da giovanissima all’INDA di Siracusa, dove oggi è docente di recitazione e poi al DAMS  di Bologna, prima di studiare e formarsi ai mestieri del palcoscenico con Luca Ronconi ed Elena Bucci e frequentare i laboratori di Davide Iodice.

La regista Livia Gionfrida

Ha lavorato con Vladimira Cantoni, Pippo Delbono, Paolo Magelli, Carlo Boso, Compagnia Laminarie, Marian Zhunin, Ricardo Bartìs, Viktor Alimpiev. Dal 2007 al 2013 come attrice e come regista ha collaborato con la compagnia Bottega degli Apocrifi, nell’ambito delle Residenze Teatrali Pugliesi. Alterna i lavori creati all’interno di territori “difficili” come istituti minorili, carceri, periferie a collaborazioni con teatri e fondazioni. Come regista ha firmato diversi lavori per Teatro Metastasio di Prato, Teatro Biondo di Palermo, Teatro Stabile di Catania. Nel 2018 ha ricevuto il Premio della Critica – A.N.C.T. per “la straordinaria densità culturale ed emotiva delle opere” e per “il coraggio, nell’estrema fedeltà alla propria poetica, di mettersi alla prova ogni volta in nuovi campi della ricerca“. A Marzo 2021 ha scritto e diretto “Le Beatitudini”, documentario d’osservazione che indaga la vita dopo il carcere attraverso l’incontro con Don Vincenzo Russo, cappellano del carcere di Sollicciano e responsabile di “Casa Caciolle”, una struttura di accoglienza per detenuti ed ex detenuti. Da anni affianca all’attività produttiva anche una intensa attività formativa in Italia e all’estero.

Come mi capita spesso, da qualche tempo, ho raggiunto l’impegnatissima regista attraverso i social ed abbiamo cordialmente parlato dei suoi inizi, dei suoi spettacoli, della paura della pandemia, dello stato della drammaturgia, delle difficoltà attuali di chi opera in campo teatrale e dei futuri impegni come regista ed autrice e come gruppo di lavoro.

L’intera squadra dello spettacolo “Pinocchio”

Partiamo dal tuo spettacolo di questa estate a Catania, “Pinocchio”. Cosa ha rappresentato per te avvicinarsi e portare in scena la drammaturgia, la poetica, la filosofia di un maestro come Franco Scaldati? Cosa ti è rimasto dentro con la messa in scena di “Pinocchio”?

“Fino al 2019 conoscevo solo superficialmente l’opera del maestro Franco Scaldati. Lavorare ad una vera e propria riscrittura a partire dal manoscritto inedito Pinocchio è stato scoprire lentamente un tesoro troppo nascosto ai più e che solo adesso il pubblico sta forse riscoprendo. Mi sono innamorata e riconosciuta nel suo modo di pensare il teatro e ho amato la poesia violenta e tenera delle sue parole che raccontano superbamente la nostra isola e la nostra fragile natura umana. Tornare a lavorare in questi anni in Sicilia e su un autore dalla lingua e dal contenuto così “potentemente siciliano” ha voluto dire per me anche affrontare tutti i problemi da cui ero fuggita, le asprezze, le ingiustizie, l’immondizia senza senso che ti entra dentro gli occhi e che vive con te nel quotidiano, il senso profondamente religioso e al contempo magico della morte, la tenerezza straziante della disparità. Il lungo lavoro sul Pinocchio ha lentamente lavorato dentro di me, riaprendo vecchie questioni legate alla mia infanzia e adolescenza e scoprendo nervi e radici del mio fare teatro”.

Il maestro Franco Scaldati

Sicilia, terra spesso amata, odiata, abbandonata anche se con rimpianto. Cosa ami di più nelle tante tradizioni ed aspetti drammaturgici della Sicilia e cosa ti piacerebbe rappresentare sulla scena di questa controversa, affascinante e misteriosa Isola?

“Sono una traditrice. Sono una di quelli che a 18 anni compiuti era pronta, prontissima, valigia in mano, a fuggire via dall’isola, senza nemmeno guardarsi indietro. Per anni non sono nemmeno tornata per le vacanze, rinnegando famiglia, amici, tutto. Ero piena di rabbia. Piena di amore, un amore così feroce e disperato.. Per me la Sicilia resta il posto più bello del mondo, continuamente violentato e straziato dagli uomini. Diciamo per tornare a Sciascia che la Sicilia è metafora del mondo e al contempo luogo del parossismo, dove ogni sentimento buono o cattivo, sembra potersi esprimere al suo estremo. Chissà se uscirò mai da questa visione. Per ora il mio ritorno è conferma. Della Sicilia mi piace raccontare tutto. I forti contrasti di luce e buio. La contraddizione tra la strada stretta e buia piena di immondizia e randagi e la piazza abbagliante che sorprende lo spettatore nei passaggi improvvisi e taglia in due lo sguardo. La sensualità del chiaroscuro, l’erotismo del cibo, i mercati che irrompono nell’anima e si fanno esperienza sinestetica, gli sguardi violenti che scivolano
nella disperata richiesta di aiuto, l’ironia e il sorriso degli ultimi”.

Livia Gionfrida, attrice, autrice, regista, insegnante ed amante del teatro: quando hai sentito il richiamo del palcoscenico, quando è nata in te questa passione e chi ti ha sostenuta ed incoraggiata?

“Ho iniziato a scrivere e organizzare spettacoli da bambina, prima nelle case di amici e parenti, poi nella grande palestra della mia scuola elementare. Al ginnasio poi ho preso parte ad uno spettacolo che debuttava al teatro greco di Palazzolo, facevamo Le Troiane per Inda giovani e durante quelle repliche ho sentito per la prima volta un’emozione davvero potente che poco c’entrava con la piccola me, e molto con una dimensione di trasformazione rituale e collettiva. Il grande rito del teatro! Dioniso che appare. Credo di cercare da allora questo dio, in ogni dove. La mia famiglia non mi ha mai né incoraggiata né ostacolata, credo che abbiano tutti sempre guardato con preoccupazione alla mia cocciuta volontà di farne un mestiere”.

Lo sguardo della regista Livia Gionfrida

Come si svolge oggi la tua attività, il tuo lavoro e su cosa si basa la tua ricerca artistica, da cosa parti con le tue ricerche e come scegli i temi?

“Il mio lavoro si muove per territori che ad ogni progetto si aprono a me sconosciuti. Faccio teatro di ricerca e provo tutte le volte di pormi con lo sguardo aperto verso l’oggetto del mio studio. Mi muovo al confine tra istituzioni e strada, alternando progetti nei teatri ufficiali a lavori che nascono e si sviluppano nelle periferie, nelle scuole, nelle carceri. Il luogo, le persone con cui lavoro, il tempo presente con le sue problematiche, sono per me la materia da cui partire ogni volta per una nuova avventura, per la quale mi avvalgo del supporto di grandi autori dalle cui opere in genere prendo spunto per nuove scritture. Sono molto interessata alla sperimentazione e mi interrogo molto sul linguaggio che possa oggi farci davvero incontrare il pubblico”.

Qual è il genere di teatro che prediligi e cosa ti piace interpretare o portare in scena?

“Amo la ricerca. Amo gli spettacoli coraggiosi in cui si legga ogni volta il tentativo dell’incontro. Mi piace molto il teatro che coniuga l’aspetto estetico a quello politico del fare arte. Mi piace anche non avere limiti di forma e decidere solo di progetto in progetto cosa serve fare. Mi piace il rischio del fallire, della caduta”.

Macbetto

Anche se giovane hai già alle spalle tanta esperienza, hai attraversato tante strade, hai affrontato tante tematiche. Quale situazione, personaggio, progetto o spettacolo ricordi con particolare piacere o sei più legata?

“Sono molto legata a tutti i miei spettacoli e progetti ed è per me impossibile sceglierne uno preferito tra i tanti. C’è stato un momento del mio percorso artistico in cui ero molto avvilita e stanca delle dinamiche difficili e fortemente burocratiche del mondo dello spettacolo, non avevo voglia di lottare contro i compromessi che di volta in volta mi venivano proposti e soprattutto sentivo il bisogno di chiudermi nella ricerca e nello studio. Ho trovato all’interno del
carcere maschile di Prato il luogo e i compagni ideali per soddisfare queste mie esigenze. Ho deciso di lasciare gli spettacoli e le compagnie per i quali lavoravo come attrice e regista e per alcuni anni mi sono chiusa in carcere. Ho creato un gruppo tra detenuti e artisti esterni e proposto Shakespeare come faro protettore e Maestro. Per cinque anni ho lavorato duro e sviluppato una trilogia shakespeariana composta da tre spettacoli: Hamlet’s dream, Macbetto e H2Otello, spettacoli per me indimenticabili. Considero quel periodo un momento di grande formazione per me e per chi mi ha accompagnato in quella grande avventura”.

Secondo te dove va oggi il teatro e quali trasformazioni ha subito?

“Sono fermamente convinta che oggi abbiamo bisogno di teatro, del rituale laico del teatro. Certamente, come tutto ciò che ci circonda, anche il nostro lavoro ha assunto una dimensione commerciale che davvero compromette il senso stesso del nostro lavoro. Occorre essere audaci. Distruggere tutto e tutto rifondare”.

Lo spettatore di oggi è ancora motivato ad andare a teatro o cerca solo le proposte commerciali o con i nomi di grido?

“Lo spettatore è secondo me davvero sottovalutato. In una delle mie opere preferite, I giganti della Montagna, Luigi Pirandello ci mette in guardia dal prendercela solo con il pubblico che non saprebbe più ascoltare, così come, ci dice, non possiamo dare solo la colpa agli artisti che invasati, avrebbero smesso di cercare di parlare a tutti. Ecco, secondo me dovremmo fare tutti molto meno. Produrre meno, darci più tempo per creare, in barba al capitalismo e alle sue disumane regole del gioco. Provare a fermarci per davvero (e non come l’anno scorso!) e in quel vuoto, in quel silenzio pieno di
significato, incontrarci finalmente, artisti e pubblico. Darsi il tempo di pensare insieme il rito e il suo signific
ato”.

Livia Gionfrida nel monologo “Gioia”

L’importanza del dialetto nei tuoi spettacoli o progetti.

“Adoro sperimentare linguaggi! Per quanto riguarda la parola, cerco sempre di fare in modo che essa sia carne viva in bocca all’attore. Nei miei spettacoli ho avuto la fortuna di poter lavorare in molte lingue e dialetti; ho utilizzato il siciliano ma ho sperimentato anche inglese, francese, russo, cinese, albanese, arabo.. Studiando ogni volta suoni e significati nuovi. In un gioco che cerca sempre di farsi capire da tutti e che unisce il segno della parola al lavoro sul corpo e sull’immagine”.

Ti interroghi sulla funzione concreta, pratica, del teatro in questo momento? Come vedi la realtà teatrale siciliana?

“Sono tornata da poco alla Sicilia e come è giusto che sia, vi rientro in punta di piedi e in ascolto rispettoso. Sto cercando di comprendere la realtà siciliana che nel teatro come per altre cose si presenta marcatamente diversa rispetto al resto del territorio nazionale. Questo può essere un punto di forza ma come sempre anche di debolezza qualora ci si chiuda all’esterno. Le difficoltà per chi decide di restare nella nostra terra sono molte ed è fondamentale secondo me sfruttare le differenze senza però escludere il nuovo e ciò che viene dall’esterno. Dall’anno scorso mi sono messa a cercare di capire e conoscere le realtà presenti sul territorio, aprendomi soprattutto a momenti di incontro con attori e artisti siciliani, attraverso laboratori di ricerca tra Palermo e Catania. Sono in cerca di compagni di lavoro con cui poter parlare la stessa lingua. Sulla funzione del teatro mi interrogo incessantemente. Non riesco a concepire il mio lavoro senza il tentativo di rispondere ad una funzione concreta e pratica del teatro, ad un bisogno umano primordiale e santo. Come detto più sopra, per me il teatro oggi è ancora più necessario di quanto lo fosse prima della pandemia”.

H2Otello

Come è nata nel 2006 l’idea di fondare il Collettivo Teatro Metropopolare in Toscana. Quali obiettivi avete raggiunto e quali i nuovi progetti?

“L’idea di Metropopolare nasce durante il mio percorso universitario, al DAMS di Bologna. Io ed un gruppetto di studenti avevamo vinto un grosso bando per “Bologna 2000 città della cultura” e io fui spinta a prendere le redini di un progetto di regia. Mettemmo in scena Metropop, spettacolo scritto a partire da Il Sogno di A. Strindberg. Poco dopo fondai Metropopolare, un’associazione che negli anni ha assunto molte e diverse conformazioni e assolto a molte funzioni. Ad oggi Teatro Metropopolare è compagnia di innovazione riconosciuta dal Ministero della Cultura e si occupa di teatro nella sua accezione più ampia, producendo spettacoli, performance e opere visive, collaborando con Teatri, Fondazioni, Musei ma anche carceri, scuole, centri antiviolenza e con tutti quei luoghi che seppur non strettamente deputati alla funzione culturale, sono per me da sempre spazi necessari per la mia ricerca artistica”.

Cosa hai provato nel ricevere nel 2018 il Premio della Critica A.N.C.T.?

“Una gioia immensa e grande sorpresa! E’ stata una conferma, un incoraggiamento e anche una grande lezione di vita”.

Chi è Livia Gionfrida nella vita di tutti i giorni: pregi e difetti, quali sono oggi, secondo te, le paure, le angosce, le esigenze degli operatori del mondo dello spettacolo?

Proteggimi”

“La mia vita è molto intrecciata al mio lavoro e per forza di cose viaggio molto e ho poco tempo libero. Sono grata alla mia famiglia e ai miei amici che nonostante tutto questo, mi accettano e amano per quello che sono. Non potrei immaginare una vita senza di loro ma spesso sono assalita dai sensi di colpa dovuti alle mie continue mancanze ed assenze. C’è una frase di un mio lavoro su T. Williams che mi sembra davvero molto pertinente per spiegarti come mi
sento: “C’è tanto amore nella mia testa, solo che io non riesco a dimostrarlo”. Difetti?! Ne sono piena! La mia testa è occupata da una insicurezza cronica permanente e alle volte mi chiedo se sia questo il motivo che mi ha lanciato verso il teatro, per contrasto, o se sia solo uno scherzo del caso.
Durante la pandemia ho lavorato molto e imparato moltissime cose nuove per me, ho avuto l’opportunità di cimentarmi per la prima volta in una regia cinematografica, di lavorare a delle opere sonore che avevo da tempo nel cassetto, di studiare. Mi sento certo più fortunata di altri colleghi perché non tutti abbiamo avuto l’opportunità di continuare a lavorare in quel periodo. Penso specialmente agli attori che hanno davvero subito un duro colpo, ma ci sono tanti altri colleghi e mestieri che davvero ancora oggi non sono riusciti a rimettersi in piedi. E’ un settore che avrebbe bisogno di una grande rimessa in discussione collettiva. Paradossalmente ci vorrebbe un bel punto. Fermare questa macchina gigantesca che si è caricata sopra un bel pò di scorie e che sta correndo all’impazzata, travolgendoci tutti. Ripensarsi comunità, ritrovare un fare teatro capillare, territoriale, che possa certo fare emergere alcune eccellenze nazionali, ma che possa soprattutto tornare al piccolo, al popolo, alle persone. Un teatro che sia servizio pubblico, luogo di tutti e per tutti. Questo oggi mi sembrerebbe necessario.
Tutto quello che è la burocrazia del potere mi è sempre sembrato troppo faticoso e spesse volte mi sembra che sia uno spreco enorme di energie, e mi dispero perché ci sono davvero tanti bravi professionisti impigliati nelle maglie di questa ragnatela che non riescono nemmeno a campare e delle cui parole e opere invece avremmo tutti tanto bisogno”.

Una tua breve definizione di teatro, vita, amicizia e amore…

“Il teatro è l’incontro tra umani, in carne e ossa. La vita è il presente misterioso. L’amicizia è uno dei sentimenti più nobili e sacri che l’animale uomo riesca a concepire. L’amore è un’emozione che ti afferra da dentro e ti trascina via”.

Hamlet”

A cosa stai lavorando al momento, quali i prossimi impegni ed un sogno che vorresti realizzare…

“Nel 2018 il Teatro Metastasio di Prato ha prodotto Gioia, un monologo da me scritto e interpretato dentro il quale le storie raccolte in tanti anni di lavoro in carcere e i fatti di cronaca legati agli abusi in divisa, le storie di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi in particolare, hanno generato un pezzo di teatro in cui interpreto una madre dolente che racconta al suo caro pubblico la storia di suo figlio, morto ammazzato per mano dello stato. Dopo lo stop Covid avevo rinunciato a riprendere questo lavoro, ma dal 2022 lo recupero e ne sono felice! Poi c’è il mio amato progetto su Franco Scaldati che prosegue con il debutto il 23 Marzo per il Teatro Biondo dello spettacolo “Inedito Scaldati” che mi vede impegnata in una nuova riscrittura con al mio fianco i formidabili compagni Melino Imparato e Rori Quattrocchi. Ho diversi progetti in cantiere, la ripresa di “Pinocchio” e di alcune opere visive che vorrei esporre ma più in generale vorrei continuare a fare ricerca e dedicarmi anche all’incontro di nuovi compagni con cui condividere un pezzo di strada”.

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