Tra tutti i personaggi dell’antichità, quello di Tiresia ci sorprende per la sua pregnanza. Tiresia è doppio e simbolico: è uomo e donna, cieco e indovino. Il suo destino è intimamente legato a quello della città di Tebe. La sua morte segna, infatti, la fine del tempo dei miti – il tempo delle storie. Tiresia è contraddittorio, è ambiguo. È un personaggio contemporaneo: in quanto tale, non collocabile.
Tiresia ci interroga su dei temi estremamente attuali: l’identità (e, in particolare, l’identità di genere) e il potere. Un potere spesso manipolatorio, che deforma la verità e la restituisce come cosa degradata; in cui la conoscenza è uno strumento per il controllo delle masse. L’identità di Tiresia, invece, si va costruendo, determinando un personaggio che scopre se stesso, come nella famosa massima delfica “gnothi seauton”.
Per sviluppare quest’indagine, l’autrice ha scelto un linguaggio misto. Un linguaggio che alterna registri diversi, da quello alto della poesia ai detti triviali della lingua parlata. Un italiano evocativo, poetico; eppure un italiano sporco, che si impregna di siciliano, che si contamina. Una lingua mista che – tuttavia – a livello recitativo diventa organica, nuova.
Non sappiamo, invece, chi è l’uomo che ha riportato in vita Tiresia, richiamandolo dal regno dei morti. Una cosa è certa: noi siamo lui, sia come pubblico che come officianti del rito. Siamo noi a rivolgere le domande all’indovino. Siamo noi a volere raccontata una storia, sia pure inventata – purché sia bellissima. Siamo noi a volere essere ingannati da Tiresia, rassicurati dal fatto che “andrà tutto bene”: la visione del futuro, invece, disattende le speranze. Perché non c’è niente di più osceno di dire la verità.