CulturaLibri

Le storie contenute in Vite minori, libro d’inchiesta della giornalista Raffaella di Rosa, edito dalla casa editrice il Millimetro, non sono facili da digerire. Alcune di esse lasciano un nodo in gola, altre ci spingono a riflettere sul nostro ruolo in questa società. Ma una cosa è certa: non possiamo dimenticarle.

Non possiamo continuare a fare finta di nulla. Le voci che attraversano le pagine del libro non sono “minori” solo perché appartengono a ragazzi giovani, ma perché troppo spesso vengono ignorate, silenziate. Questi adolescenti, nelle loro diversità e difficoltà, sono invisibili ai nostri occhi, fino a quando non finiscono in un tribunale o in un istituto penale minorile. E allora, come una valanga, cominciamo a parlare di loro in termini di “colpevoli”, “autori di reato”, ma raramente ci fermiamo a riflettere su cosa abbia portato questi ragazzi in quel luogo. Quali cicatrici invisibili portano con sé? Quante occasioni hanno perso? Quanto amore e supporto sono mancati? Ogni storia raccontata in questo libro è una storia che merita di essere conosciuta. E non solo per compiere un atto di giustizia “sociale” o per colmare una curiosità morbosa. Ma vite minori per comprendere, prima di tutto, che dietro ogni reato c’è una vita, c’è una persona, c’è un contesto che troppo spesso viene negato. L’infanzia e l’adolescenza di questi ragazzi sono segnate da esperienze difficili, a volte devastanti. 

Chi ha scritto queste pagine ha scelto di dare voce a chi solitamente rimane in silenzio. Non si tratta di giustificare o minimizzare, ma di aprire una finestra su realtà che troppo spesso tendiamo a ignorare. Non possiamo fingere che non esistano, né possiamo accontentarci di risposte facili. Questi racconti ci interpellano, ci chiedono di rivedere le nostre convinzioni sulla giustizia, sull’educazione, sulla responsabilità. Vite come queste non si possono archiviare con una condanna. Non è sufficiente dire che hanno sbagliato.” Sono le parole della giornalista Gaia Tortora, figlia di Enzo, scritte dopo aver letto i risultati dell’accurata indagine svolta da Raffaella di Rosa sulla situazione degli Istituti per Minori in Italia che sintetizzano in modo perfetto il valore del libro Vite minori in uscita in questi giorni.

Storie e vicissitudini di chi vive appeso tra rabbia e speranza, senza sogni e con un futuro sempre più incerto: come Bilal, dodicenne marocchino baby rapinatore, che oggi sconta la pena nella comunità Kayros di Don Claudio Burgio a Milano. Oppure A., minorenne condannata e detenuta a Pontremoli colpevole di aver partecipato al lancio di una bicicletta dai Murazzi del Po di Torino, lasciando un suo coetaneo sulla sedia a rotelle per tutta la vita.

Il libro raccoglie, attraverso un meticoloso lavoro di indagine, anche le testimonianze di chi in carcere ci lavora: agenti, preti, educatori, infermieri, magistrati. In Italia ci sono 17 Istituti di pena per minorenni e nell’ultimo anno, dopo il decreto Caivano, sono sovraffollati e pieni di rabbia, tra rivolte e tentativi di evasione. Un’opera perfetta per chi desidera informarsi su una parte d’Italia quasi sempre nascosta e spesso raccontata attraverso semplicistiche ricostruzioni, senza incidere, senza scavare, senza ascoltare.

Vite minori, la cui prefazione è del giornalista Enrico Mentana, è il secondo volume della collana il Millimetro dedicato al giornalismo d’inchiesta. È disponibile nella versione cartacea al prezzo di 18 euro e in formato digitale.

L’autrice

Raffaella di Rosa è giornalista del Tg di La7 e conduce tutte le mattine l’edizione delle 7.30. In precedenza, ha lavorato al programma di Raitre L’Elmo di Scipio con Enrico Deaglio. Si occupa di cronaca e politica ed è autrice di servizi dedicati alle tematiche sociali, dalle migrazioni ai femminicidi.

Parole scolpite nel cuore

cinque frasi tratte da Vite minori che non possono lasciare indifferenti

 

«Qui dentro entriamo che sappiamo fare un reato e usciamo che ne sappiamo fare molti»

 

«Non ho mai accettato di fare interviste proprio perché non voglio difendere mio figlio, ma della vita in carcere sì, voglio parlare; spesso li trattano come animali e questo non va bene. Lui ha avuto la scabbia lì dentro, è stato in isolamento molte volte, dormiva per terra, la rivolta è nata anche per questo».

 

Anche il carcere può sembrare un bel posto se fuori non sai dove stare.

 

Mia nonna aveva problemi economici: prendeva 300 euro al mese. Lo Stato ha pagato le comunità in cui mi hanno mandato fino a 900 euro al mese e se quel denaro lo avesse dato a mia nonna per crescere me magari sarei stato meglio».

 

«E poi mi chiedo: cosa pensa la gente del mio paese di me? Potrò mai dimostrare che non sono più quel ragazzino impulsivo e aggressivo di qualche anno fa? Potrò mai avere una seconda possibilità? Ma poi la gente che ne sa di me? Cosa sa della mia vita? Di cosa vuole dire essere abbandonato dalla propria madre? Di quello che significa crescere senza le cure e gli abbracci di chi ti ha messo al mondo?».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Commenti sul post