Lo tsunami che nel 1693 ha colpito la Sicilia sudorientale fu probabilmente determinato da due onde distinte generate da sorgenti diverse, ma tra loro correlate. Lo rivela uno studio condotto dai ricercatori degli atenei Aldo Moro di Bari e Catania insieme con l’Institute of Geosciences di Kiel.
La ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista internazionale “Nature – Scientific Reports” – dal titolo “The enigmatic 1693 AD tsunami in the eastern Mediterranean Sea: new insights on the triggering mechanisms and propagation dynamics” – porta la firma di Giovanni Scicchitano, Salvatore Gambino, Giovanni Scardino, Giovanni Barreca, Felix Gross, Giuseppe Mastronuzzi e Carmelo Monaco e analizza le dinamiche di innesco e propagazione dello tsunami che nel 1693 invase le coste della Sicilia sud-orientale, arrivando fino a Malta e alle Isole Eolie.
“La definizione della sorgente dello tsunami che nel 1693 colpì la Sicilia sud-orientale è stata oggetto, negli ultimi anni, di un forte dibattito da parte della comunità scientifica. Alcuni gruppi di ricerca l’hanno attribuita al movimento di una struttura tettonica che ha dislocato il fondo del mare, altri ad una frana sottomarina innescata dal violento terremoto (magnitudo stimata 7.4). Questa attenzione verso la sorgente dell’evento marino è motivata dal fatto che dalla sua identificazione dipende la valutazione della pericolosità delle aree costiere della Sicilia orientale a questo tipo di eventi. Il calcolo della pericolosità si basa in parte sul periodo di ritorno con il quale uno specifico evento calamitoso si manifesta e, nello specifico, una dislocazione sismica del fondo marino ed una frana sommersa si verificano con ciclicità molto differenti proprio perché legate a processi profondamente diversi”, spiega il prof. Giovanni Scicchitano del Dipartimento di Scienze della Terra e Geoambientali dell’Università di Bari Aldo Moro.
“Nel nostro studio abbiamo modellizzato la genesi e la propagazione di onde di tsunami considerando l’ipotesi che l’evento del 1693 fosse stato generato da una movimentazione della massa d’acqua causata sia da una faglia nel fondale marino che da una frana sottomarina e, per la prima volta, è stata anche valutata la possibilità che il maremoto fosse stato in realtà composto da due onde distinte: una generata dalla dislocazione della struttura tettonica e l’altra, a breve distanza di tempo dalla prima, generata da una frana sottomarina innescata dal terremoto stesso – aggiunge il prof. Scicchitano, responsabile scientifico della ricerca –. I risultati dei modelli matematici sono stati successivamente validati dall’analisi delle impronte geologiche e geomorfologiche che lo tsunami del 1693 ha lasciato lungo le aree costiere della Sicilia sud-orientale e dal confronto con le cronache storiche dell’epoca, che spesso descrivono con dovizia di particolari l’impatto del maremoto. L’incrocio dei dati ha evidenziato che uno tsunami generato da una singola sorgente (faglia o frana) non solo non poteva avere la capacità di inondare tutte le aree colpite, ma soprattutto non spiegava un particolare fenomeno, spesso descritto nelle cronache dell’epoca e che non può essere legato ad una singola onda, ovvero il doppio ritiro del mare”.
“Rilievi geofisici marini di elevata risoluzione hanno permesso di individuare lungo la Scarpata di Malta la possibile sorgente tettonica (faglia) del terremoto del 1693 – aggiunge il dott. Giovanni Barreca dell’Università di Catania, co-autore della ricerca –. Una frana sottomarina molto vicina alla faglia è stata inoltre mappata con precisione immediatamente al largo di Augusta. Utilizzando la magnitudo massima (M=7.4), stimata per l’evento del 1693, è stato simulato al computer il movimento della faglia ottenendo una deformazione (scalino) sul fondale marino di circa 2,3 metri. Questo dato e il volume stimato della frana rappresentano i dati necessari per la successiva simulazione delle onde di tsunami.
Per trovare le evidenze sul territorio dei risultati dei loro modelli, il gruppo di ricerca ha condotto anche un’analisi accurata per ricostruire la geografia dell’area costiera della Sicilia orientale all’epoca dell’impatto dello tsunami“.
“La capacità di uno tsunami di inondare la parte emersa della costa è strettamente legata al tipo di substrato su cui si propaga: superfici più aspre ed irregolari, come le coste rocciose di origine calcarea molto carsificate, offrono una altissima resistenza ai flussi d’acqua; al contrario le aree lagunari, spesso largamente ricoperte di acqua, sono più facilmente inondabili dalle onde estreme– aggiunge il prof. Scicchitano –. Oltre questa considerazione, anche la forma delle coste può amplificare o dissipare l’energia di uno tsunami, le strette baie ed i porti canali, ad esempio, hanno la capacità di incrementare gli effetti dei maremoti, mentre al contrario, le lunghe ed ampie spiagge riescono a smorzarne l’energia. Per questi motivi, particolare cura è stata posta nell’analisi della cartografia dell’epoca, un database fondamentale per la ricostruzione delle caratteristiche geografiche del passato. L’area di Mascali nel catanese, ad esempio, nel 1693 era interessata dalla presenza di una bassa laguna costiera e per questo l’evento di quello stesso anno è riuscito a penetrare per quasi un chilometro e mezzo. Anche l’area del porto di Catania era profondamente differente dall’attuale e la sua forma ha amplificato l’effetto del maremoto”.
“Stiamo estendendo le nostre analisi anche ad altri eventi di tsunami avvenuti nella Sicilia orientale come ad esempio quello del 1908 di Messina, per verificare se la dinamica a doppia sorgente possa essere una caratteristica peculiare dello Ionio meridionale, caratterizzato dalla presenza di una scarpata sommersa molto acclive come la quella ibleo-maltese, che può essere interessata da fenomeni franosi, e da numerose faglie sismogenetiche che possono generare tsunami e al contempo innescare dissesti gravitativi” conclude il docente dell’Università di Bari.