Cultura

La cronotassi dei vescovi di Torino incomincia con un Massimo che tutti gli antichi storici identificano con il santo che porta questo nome.

Il prete Gennadio di Marsiglia (496 ca.), conosciuto anche con il nome di Gennadio Scolastico (Gennadius Scholasticus), nella sua opera De viris illustribus, che continua quella di san Girolamo dello stesso titolo, presenta il vescovo Massimo come profondo  conoscitore della Sacra Scrittura, forbito predicatore ed autore di parecchie e preziose opere che gli hanno meritato di essere considerato Padre della Chiesa. Egli, come pastore della Chiesa di Torino, era impegnato nell’istruire la sua comunità con una frequente predicazione.

La citazione di Gennadio termina precisando che Massimo visse sotto il regno di Onorio (384 – 423) e di Teodosio il Giovane (401-450) <<Moritur Honorio et Theodosio juniore regnantibus>> ed anche con l’indicazione precisa dell’anno della morte che è il 420, ma che non sembra sicura. Massimo morì sicuramente in uno degli anni compresi tra il 408 e il 423, nei quali i due imperatori regnarono insieme (Cfr. De vir. ill.,41). Alcuni studiosi però non accettano questo limite perché un vescovo di Torino, di nome Massimo partecipò al sinodo di Milano del 451 e a quello di Roma del 465. Negli Atti di queste assemblee si legge il suo nome.

Si deve ammettere però che due vescovi torinesi portano dello stesso nome, dei quali il primo è il nostro santo e il secondo, successo immediatamente a lui, Massimo II (451 ca. – 465 ca.), che partecipò ai due sinodi. Il gesuita Fedele Savio (1848 – 1916 ), storico della Chiesa, sostenne con solide ragioni che prima di Massimo la diocesi di Vercelli estendeva la sua giurisdizione su quasi tutto il Piemonte e forse anche  oltre e quindi anche su Torino. Questa città ebbe il primo vescovo, forse non molto tempo dopo il 363, quando il vescovo Eusebio (283-371) tornò a Vercelli  dall’esilio, probabilmente nel 397, e quando, per iniziativa di Ambrogio di Milano, e poi del successore Simpliciano, che fu vescovo di Milano dal 397 al 401, furono erette diverse diocesi  piemontesi, compresa quella di Torino. Accogliendo questa seconda ipotesi, che sembra meglio fondata, si deve ritenere che il vescovo Massimo iniziò il suo ministero con la fondazione della diocesi e lo concluse con la sua morte avvenuta non oltre il 423. Massimo nacque probabilmente verso la metà del IV sec. in un luogo a noi ignoto, ma sicuramente non fuori del territorio piemontese, come si può arguire da qualche indizio dei suoi Sermoni.

I discorsi di Massimo, che sono solitamente molto brevi, ma caratterizzati da uno stile energico, sono indirizzati in modo specifico ad un nucleo selezionato della comunità di Torino, costituito da ricchi proprietari terrieri che avevano i loro possedimenti nella campagna torinese e la casa in città. Nei loro confronti il vescovo ha sentito il dovere di redarguire la cupidigia e l’avarizia. Le ricchezze venivano accumulate ma anche occultate: <<Uno non pensa al bisogno dell’altro. Infatti molti cristiani non solo non distribuiscono le cose proprie, ma rapinano anche quelle degli altri. Non solo, dico, raccogliendo i loro denari non li portano ai piedi degli Apostoli, ma anche trascinano via dai piedi dei sacerdoti i loro fratelli che cercano aiuto… Nella nostra città ci sono molti ospiti pellegrini. Fate ciò che avete promesso perché non si dica a voi ciò che fu detto ad Anania; <<Non avete mentito agli uomini, ma a Dio>> (Serm. 17-2-3).

L’antica Basilica di san Massimo di Torino a Collegno dopo i restauri del 1950

In un altro discorso il vescovo Massimo stigmatizza forme ricorrenti di sciacallaggio sulle disgrazie degli altri: <<Dimmi: perché hai preso la preda abbandonata dai predoni? Perché hai introdotto nella tua casa un “guadagno”, come pensi tu stesso, sbranato e contaminato? Ma forse tu dici di aver comprato, e per questo pensi di evitare l’accusa di avarizia. Ma non è questo il modo che si può far corrispondere la compra alla vendita. E’ una buona cosa comprare, ma in tempo di pace ciò che si vende liberamente, non durante un saccheggio ciò che è stato rapinato… Agisce dunque da cristiano e da cittadino chi compra per restituire>> (Serm. 3).

Nelle Omelie 77 e 78, dedicati alla memoria del santo vescovo Eusebio di Vercelli, Massimo lo chiama più volte padre comune  di se stesso e del popolo che lo ascolta, riconoscendo così che il santo vescovo Eusebio, per mezzo del Vangelo, li ha generati tutti in Cristo e ha anche lasciato tra i suoi discepoli molti  successori rivestiti della dignità episcopale.

San Massimo

Massimo dimostrò un grande impegno quando fu tenuto a Torino, il 22 settembre 398, un concilio di vescovi dell’Italia del Nord e delle Gallie per discutere alcune loro questioni. Egli,  raccomandando alla sua comunità  di essere ospitale verso i vescovi di oltralpe, disse: <<Se siamo figli di Abramo, facciamo le opere di Abramo, che ospitò nella tenda i misteriosi forestieri ricordati nella Bibbia, ed accogliamo nelle nostre case i pastori che verranno numerosi>> (Serm. 96). Rivolgendosi poi ai vescovi radunati, ricordava le parole pronunciate il giorno prima dal <<Signore e fratello nostro presente vescovo, che con tanta facondia ha trattato le cose divine, e la sua esposizione è apparsa piena di grazia sacerdotale, di eloquenza e di sapienza. Né ciò desta meraviglia, che chi possiede il primato episcopale abbia anche il primato dell’eloquenza… per questo so bene che la mia pochezza riuscirà meno gradita alle vostre orecchie>> (Om. 84). Il vescovo presente primate era certamente Simpliciano di Milano, capo della Chiesa metropolitana lombarda.

Quando Torino fu minacciata dal grave pericolo di una invasione di barbari, Massimo sostenne la comunità dei suoi fedeli esortandoli ad avere fiducia in Dio, nella preghiera e nella mortificazione e ad essere decisi nella resistenza, ammonendo anche coloro che avevano deciso di fuggire dalla città per mettersi al sicuro. Tutto ciò è scritto nelle Omelie  86-92, nelle quali si leggono le seguenti ammonizioni, che sono il tema generale sviluppato con eloquenza e abbondanza di argomenti: <<Le nostre armi sono quelle che ci diede il Salvatore, preghiera misericordia e digiuno. Il digiuno protegge meglio che il muro; la misericordia libera più facilmente che la rapina; la preghiera ferisce più a lungo della spada>>.

E a coloro che stavano per fuggire, dava queste cristiane e civiche ammonizioni: <<E’ figlio ingiusto ed empio colui che abbandona la madre in pericolo. Dolce madre è in qualche modo la patria, che ti ha generato, che ti nutre… Ignori dunque che la prima cattiveria   è questa, non vedere la patria, e più grave di ogni male è sostenere l’esilio di una fuga ostile?>>.

Questi discorsi devono collocarsi o al tempo di Eugenio, tiranno delle Gallie, che nel 393 attraversò il Piemonte, la Lombardia e il Veneto e poi fu sconfitto da Teodosio ad Aquileia, oppure, e con maggiore probabilità, quando nel 402 i Visigoti di Alarico invasero il Piemonte e furono sconfitti, oppure quando, tre anni dopo Radagaiso (335-406), a capo di una coalizione di tribù germaniche, Goti, Vandali, Suebi, Burgundi ed Eruli, giunse fin sotto le mura di Torino, che si fortificò e si difese. La coalizione di Radagaiso fu poisconfitta dall’esercito romano nella battaglia di Fiesole nel 405.

Con la sua predicazione il vescovo Massimo tendeva a liberare il popolo dalle superstizioni e dai costumi pagani e ad istruirlo nelle verità e nelle virtù cristiane. Nell’Omelia 16 egli riprova le consuetudini popolari delle calende di gennaio, ed ammonisce così la comunità: <<Non è forse vero che tutto ciò che  i ministri dei demoni compiono nei giorni delle calende è falso e insano? Quando l’uomo infrange il suo vigore nella sua effeminatezza e quasi si pente di essere uomo? Quando gli uomini creati da Dio, si trasformano in gregge o in fiere o in esseri mostruosi? Quando deturpano il volto, plasmato dalle mani divine, nello squallore di sconci aspetti? Dicono di prendere gli auspici, giudicano il corso della loro vita da indizi vacui, e da segni di uccelli e di fiere deducono il futuro; ed è noto che Dio solo conosce il  futuro, e la legge divina vieta tali superstizioni>>. Su questi ammonimenti e divieti il vescovo Massimo insisteva ripetutamente, come appare nell’Omelia 102 e nel Sermone 7.

In quel tempo era usanza popolare elevare alte grida alla luna in eclissi <<per darle aiuto e superare il travaglio>>. Massimo allora interviene con le Omelie 100 e 101, e non senza ironia, apostrofa così i suoi ascoltatori: <<Quanto più mi adopero per portarvi alla saggezza tanto più sono costretto a sentire confusione a causa vostra. Verso il vespero ho sentito così alta vociferazione di popolo che sembrava si volesse penetrare il cielo. Mi è stato detto che le vostre grida prestavano soccorso alla luna in crisi. Non ho potuto trattenere il riso, e ho ammirato questi buoni cristiani che volevano soccorre Iddio. Fate bene, in verità, a dare qualche aiuto alla Divinità, perché con la vostra collaborazione possa reggere il cielo! Ma se volete fare meglio, tutte le notti dovete vegliare, perché quante volte, mentre voi dormite, la luna subisce violenza! O credete forse che ciò avvenga soltanto al vespero? Veramente presso di voi la luna è in travaglio quando una copiosa cena vi distende il ventre e il capo vi ciondola per troppe libagioni>>.

Le campagne piemontesi erano ancora disseminate di idoli e di simboli superstiziosi molto venerati dai contadini, e Massimo si schiera contro tali pratiche, dedicando a questo argomento i Sermoni 101 e 102: <<Vi ho ammonito di recente di liberare le vostre terre da ogni contaminazione idolatrica e dall’errore dei gentili. Non è lecito che, avendo Cristo nel cuore, abbiate l’Anticristo nei vostri possedimenti e mentre voi adorate Dio nella chiesa, i vostri contadini venerino il diavolo nelle are e nelle edicole>>.

Ora Massimo racconta anche una scena di superstizione campagnola: <<Un contadino, fradicio di vino, che si considera  indovino, si prepara ad onorare la sua dea, ed essendo ebbro non sente il dolore che infligge se stesso. Ha il corpo irsuto di adulterino crine, nudo il petto, le gambe semiavvolte in un pallio, e come un gladiatore  preparato alla lotta  ha nelle mani un’arma; se non che è peggiore del gladiatore perché questo combatte contro un altro, mentre egli inveisce contro se stesso, dilania le proprie membra e il nume lo eccita ad incrudelire sul proprio corpo>>.

  San Massimo di Torino, Codice della Catena, Miniatura – Torino 1300

Il vescovo Massimo ammoniva  severamente anche i proprietari dei fondi che, se non avessero liberato le loro terre dagli idoli e dalle pratiche pagane, si sarebbero resi responsabili delle colpe dei loro contadini. L’idolatria, affermava il vescovo, contaminava tutto e tutti, e pertanto bisognava toglierla di mezzo.

 L’oratoria del vescovo Massimo appare sempre ispirata alla mitezza e alla  benevolenza, anche se a volte non rifugge dalla vigorosa riprovazione, dall’ammonimento grave e persino da una pacata ironia. Lo stile, che è chiaro e scorrevole, è anche persuasivo. Trattando i temi da lui preferiti nella catechesi dogmatica e morale, egli ricorreva sovente alle citazioni della Sacra  Scrittura, sempre interpretate con perfetta ortodossia.

Il vescovo di Torino è un apologeta zelante della Chiesa e parla come maestro della fede, non per entrare in controversie teologiche, pur mettendo in guardia dai residui dell’arianesimo, ma per edificare, richiamando verità note, soprattutto nel commentare i testi biblici. Un posto notevole occupa nella sua predicazione la visione della Chiesa considerata come società dei credenti in Cristo, costituita sulla gerarchia episcopale con il centro e il fondamento nel vescovo di Roma, successore dell’apostolo Pietro e Vicario di Cristo. La cattedra di Pietro è il fondamento dell’unità della Chiesa.         

La liturgia nelle pratiche sul ciclo annuale, è tema di meditazione sui misteri che si commemorano. Particolarmente significativa è la riflessione di Massimo sui sacramenti del battesimo e dell’eucaristia. Egli <<ha il merito – scrive Michele Pellegrino – di riportarsi al punto da cui zampillano le energie santificatrici del sacramento cristiano: la persona stessa cioè <<Cristo e la sua opera salvifica tutta rivolta a noi. Essa precontiene in in sé l’intera economia sacramentale>> per cui <<il Cristo può essere ed è stato chiamato direttamente sacramentum>>.  Di  Maria, Massimo esalta la maternità virginale.

Il vescovo Massimo, che è stato maestro efficace di virtù cristiane, specialmente durante il tempo quaresimale, conta sulla preghiera, sul digiuno, sulla misericordia, sulla sobrietà e sulla pietà. Egli, nei suoi discorsi esortava  il suo popolo alla preghiera che non doveva essere praticata solo la domenica, giorno che ricorda la risurrezione di Cristo, ma tutti i giorni, mattino e sera, come mezzo di elevazione dello spirito per ottenere da Dio l’aiuto necessario.

Riguardo al digiuno, soprattutto durante la Quaresima, Massimo è molto esigente, a condizione che si accompagni con l’impegno del rinnovamento interiore e che chi si priva di qualcosa sia largo di aiuti ai bisognosi. Ma è soprattutto con l’elemosina che si ottiene il perdono dei peccati. Il vescovo non esita a sferzare duramente l’ipocrisia dei cristiani che osservano il digiuno, ma dimenticano che i loro fratelli sono fratelli in Cristo e usano con essi un trattamento disumano (Om. 44).

Il vescovo allora esorta con forza i cristiani di Torino a partecipare con frequenza alle assemblee liturgiche, nelle quali egli rivolgeva loro  sempre la sua parola illuminatrice, che certamente li aiuta a guarire le piaghe dell’anima e li porta verso la conversione del cuore. Massimo non è meno severo con i pubblici funzionari che si lasciano corrompere per avidità di denaro e, più ancora, con gli sciacalli che comprano a basso prezzo dai barbari invasori il frutto delle loro rapine.

Il vescovo non manca di redarguire severamente, pur dichiarando che alcuni si comportano in modo esemplare, gli ecclesiastici che trascurano di frequentare la chiesa e quelli che si lasciano impigliare negli affari anziché attendere al loro ministero o si servono di questo come fonte di lucro e reagiscono malamente quando il vescovo li richiama.

Il sommo pontefice Benedetto XVI, nell’Udienza Generale del  31 0ttobre 2007, indica il vescovo Massimo di Torino come Padre della Chiesa e così ne sintetizza il ministero nella Torino del suo tempo: <<Massimo, nel crollo delle autorità civili dell’impero romano, si sentiva pienamente autorizzato ad esercitare in tale senso un vero e proprio potere di controllo sulla città. Questo potere sarebbe poi diventato sempre più ampio ed efficace sino a supplire la latitanza dei magistrati e delle istituzioni civili. In questo contesto Massimo non solo si adopera per rinfocolare nei fedeli l’amore tradizionale verso la patria cittadina, ma proclama anche il preciso dovere di far fronte agli oneri fiscali per quanto gravosi e sgraditi essi possono apparire>> (Cfr. Serm.26,2).

A conclusione dell’Udienza, Benedetto XVI ricorda ciò che dice la Costituzione pastorale Gaudium et spes per illuminare uno dei più importanti aspetti dell’unità di vita del cristiano: <<la coerenza tra fede e comportamento, tra Vangelo e cultura. Il Concilio esorta i fedeli a «compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del Vangelo. Sbagliano coloro che, sapendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile, ma che cerchiamo quella futura, pensano di potere per questo trascurare i propri doveri terreni e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno»

Seguendo il magistero di san Massimo e di molti altri Padri, facciamo nostro l’auspicio del Concilio, che sempre di più i fedeli siano desiderosi di «esplicare tutte le loro attività terrene, unificando gli sforzi umani, domestici, professionali, scientifici e tecnici in una sola sintesi vitale insieme con i beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene coordinato a gloria di Dio e così al bene dell’umanità>> (Cfr. GS 43).

Il vescovo Massimo è autore di numerosi discorsi, editi per la prima volta dal sacerdote Bruno Bruni (1714-1796) della Congregazione degli Scolopi: Sancti Maximi episcopi taurinensis. Opera Omnia, iussu Pii sexti edita, aucta atque adnotationibus illustrata et Victorio Amedeo Sardiniae rege dicata, Roma 1784.  La produzione di Massimo, che il Bruni aveva raccolto (118 omelie, 116 sermoni e 6 trattati), anche se non di tutti è possibile dimostrare l’effettiva origine, è stata poi ristampata nell’Ottocento nella Patrologia Latina del Migne 57.

Le Omelie 1-63 sono de tempore, ossia sui tempi dell’anno liturgico e sulle feste del Signore; le omelie 64-82 sono de sanctis, cioé sui santi e sulle loro memorie; infine, le omelie 83-118 sono de diversis, trattando argomenti di natura esegeticadogmatica o morale. Medesima scansione si riconosce per i Sermoni: 1-55 sono de tempore, 56-93 de sanctis, 93-116 de diversis. Tre dei Trattati sono sul battesimo, uno sui Pagani, ed un altro sugli Ebrei. Di altri due restano solo dei frammenti, peraltro di dubbia origine.

La Risurrezione di Cristo, Tiziano Vecellio, 1542-1544 – Galleria Nazionale delle Marche

Il vescovo Massimo, in una  Pasqua del suo tempo, rivolse alla sua Comunità questo discorso in cui dimostra che la Pasqua di Cristo risorto è giorno senza tramonto: <<Tutta la creazione è invitata ora ad esultare e a gioire, perché la resurrezione di Cristo ha spalancato le porte degli inferi, i nuovi battezzati hanno rinnovato la terra e lo Spirito Santo apre il cielo. L’inferno, a porte spalancate, lascia uscire i morti, dalla terra rimessa a nuovo germogliano i resuscitati, il cielo aperto accoglie coloro che ad esso salgono. Il ladrone è asceso in paradiso, i corpi dei santi hanno accesso alla città santa, i morti ritornano presso i vivi. In virtù di una specie di sviluppo della resurrezione di Cristo, tutti gli elementi son portati verso l’alto. L’inferno lascia risalire alla sommità quelli che deteneva, la terra invia verso il cielo coloro che aveva sepolto, il cielo presenta al Signore coloro che accoglie. Con un unico e medesimo movimento, la passione del Salvatore ci fa risalire dai bassifondi, ci solleva dalla terra e ci colloca nei cieli. La resurrezione di Cristo è vita per i defunti, perdono per i peccatori e gloria per i santi. Quando Davide dice che bisogna esultare e rallegrarci in questo giorno che il Signore fece (cfr. Sal. 117, 24), egli esorta tutta la creazione a festeggiare la resurrezione di Cristo. La luce di Cristo è un giorno senza notte, un giorno senza fine. Ovunque risplende, ovunque irraggia, ovunque è senza tramonto. Che cosa sia questo giorno di Cristo, ce lo dice l’Apostolo: La notte è già “inoltrata, il giorno s’avvicina (Rom. 13,12). La notte è già inoltrata, non ritornerà più. Comprendilo: una volta apparsa la luce di Cristo, le tenebre del demonio si sono date alla fuga e l’oscurità del peccato non ritorna più; le foschie del passato sono disciolte dallo splendore eterno. Infatti il Figlio è questa stessa luce cui il giorno, suo Padre, ha comunicato l’intimo segreto della sua divinità (cfr. Sal. 18,3). Egli è la luce che ha detto per bocca di Salomone: Feci levare nel cielo una luce senza declino (Eccli. 24, 6). Come la notte non può succedere al giorno celeste, così le tenebre non possono succedere alla giustizia di Cristo. Il giorno celeste risplende, scintilla e sfolgora senza posa, e non può essere coperto da oscurità alcuna. La luce di Cristo splende, brilla e irraggia senza sosta, e non può essere coperta dalle ombre del peccato; da cui le parole dell’evangelista Giovanni: La luce risplende fra le tenebre; ma le tenebre non l’hanno ricevuta (Gv. 1,5). Questa è la ragione per cui, fratelli, noi tutti dobbiamo esultare in questo santo giorno. Nessuno si sottragga alla gioia comune a causa della consapevolezza dei propri peccati; nessuno si allontani dalle preghiere del popolo di Dio, a causa del peso dei propri errori. In questo giorno tanto privilegiato nessun peccatore deve perdere la speranza del perdono. perché. se il ladrone ha ricevuto la grazia del paradiso, come potrà mai il cristiano non avere quella del perdono?>> (Massimo di Torino, Sermone 53, 1,2,4: CCL 23, 214-216).

Il vescovo Massimo è stato il primo pastore di una Chiesa giovane appena staccata da quella di Vercelli che era stata illuminata dalla figura di Eusebio, intrepido difensore della fede di Nicea e della persona di Atanasio di Alessandria (295 ca. – 373),  padre e dottore della Chiesa, che combatté tenacemente l’eresia ariana resistendo all’imperatore Costanzo II, promotore e sostenitore dell’eresia, subendo più volte l’esilio.  

Forte della sua solida formazione teologica, Massimo fu un pastore attento alla situazione civile e religiosa nella Chiesa di Torino, impegnato ad eliminare i residui di paganesimo nella comunità cristiana, di conquistare alla fede  le popolazioni ancora pagane delle campagne, di mettere in guardia i fedeli dalle eresie serpeggianti e soprattutto di aiutarli a vivere coerentemente la fede professata. Egli, con la sua predicazione assidua centrata su Cristo, deduceva dalla Parola di Dio, con senso di concretezza, le indicazioni per il comportamento quotidiano. Il suo linguaggio chiaro e forte provocava anche il risentimento di alcuni uditori, specialmente tra i chierici, ma la sua durezza era compensata da accenti di sincero affetto verso la comunità dei fedeli che egli portava sempre nel cuore, anche quando si trovava lontano da Torino.

Nel Martirologio Romano è scritto: <<A Torino, san Massimo, primo vescovo di questa sede, che con la sua parola di padre chiamò folle di pagani alla fede di Cristo e le guidò con la celeste dottrina al premio eterno>>.

Alcune reliquie di san Massimo sono conservate nella Basilica di San Massimo a Collegno, alle porte di Torino, una delle più antiche chiese cristiane del Piemonte che, molto probabilmente, allora fu sede vescovile dello stesso Massimo.

La Chiesa Cattolica e la Chiesa Ortodossa celebrano la memoria di san Massimo di Torino il 25 giugno.

Diac. Dott. Sebastiano Mangano

Già Cultore di Letteratura Cristiana Antica nella Facoltà di Lettere nell’Università di Catania

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