Cultura

La comunità parrocchiale catanese “Sant’Euplio Martire” è stata invitata dal giovane parroco, sac. Fausto Grimaldi, durante un incontro di un ciclo di catechesi per adulti dal tema “Leggere per… comprendersi” (e comprendere come il travaglio di una persona può portare ad approdare in spiagge inimmaginabili) aperto a tutti, a riflettere su una poesia sull’attesa nell’imminenza di qualcuno o di qualcosa che potrebbe arrivare, apparentemente difficile nella comprensione ma che racchiude in sé orizzonti di speranza, dal titolo “Dall’immagine tesa” che compare come ultimo teso della raccolta “Canti anonimi” scritta dal sacerdote Clemente Maria Rebora, uno dei maggiori poeti del Novecento italiano, consacrato nell’“Istituto della Carità” congregazione religiosa fondata dal beato Antonio Rosmini sul Sacro Monte Calvario di Domodossola dove si professa la carità in tutte le sue accezioni per cui non è esclusa alcuna opera di carità di Dio e del prossimo.

Clemente Rebora

Rebora, nato a Milano il 6 gennaio 1885 da una famiglia ligure di tradizione laica, compì gli studi nella metropoli ambrosiana. Il padre, garibaldino e massone, lo mantenne lontano dalla pratica religiosa e lo educò agli ideali progressisti e mazziniani diffusi tra la borghesia lombarda risorgimentale ed anticlericale. Clemente, insofferente al rigido indirizzo ideologico paterno, volle intraprendere liberamente una strada personale e frequentò per solo un anno la facoltà di medicina dell’Università di Pavia per transitare, attratto dall’Accademia scientifico-letteraria di Milano, alla facoltà di Lettere del capoluogo lombardo, dove si laureò brillantemente con una tesi su Romagnosi, iniziando a collaborare alla prestigiosa rivista fiorentina “La Voce” e a pubblicare poesie, tra le quali “Frammenti lirici” accolti con grande interesse negli ambienti letterari. Nel frattempo iniziò ad insegnare negli istituti tecnici.

“Rebora si forma e sviluppa una sensibilità verso gli ultimi” spiega padre Grimaldi “spendendo gran arte del suo tempo e del suo stipendio di insegnati per poveri e senza tetto. Questo suo spiccato senso umano non rimaneva in superficie ma trovava sempre una radice profonda nel suo animo che si evince dai Canti anonimi”, scritti nel 1920-1922 dopo diversi anni di travagliate esperienze: la convivenza per 6 anni con Lydia Natus, una pianista ebrea russa, la sofferta chiamata alle armi come ufficiale durante il “martirio inimmaginabile” della Grande Guerra, la gravissima ferita alla tempia colpito da una granata sul Carso, la conseguente nevrosi da trauma nervoso che avrebbe stravolto la sua vita. L’immane “inutile strage”, la sofferenza e il dolore lo avevano forgiato interiormente.

   Il profondo travaglio interiore che lo tormentava lo avrebbe avvicinato alle religioni orientali e al misticismo buddista ed infine alla luce della fede cattolica e alla conversione definitiva, sostenuto dall’amicizia con il cardinale arcivescovo benedettino di Milano, il beato Ildefonso Schuster, che gli impartì il sacramento della Confermazione. Bruciati i libri e le carte personali, affascinato dalla figura e dal pensiero cristiano di Rosmini nel 1931 entrò come novizio nel seminario dell’Istituto della Carità e dopo due anni professa i voti religiosi.

“Nel 1936” prosegue don Fausto “viene ordinato sacerdote e svolgeva il suo ministero per il resto della sua vita tra Domodossola, Rovereto e Stresa. Carlo Bo lo ha definito come <il maggior poeta religioso del Novecento italiano>. Le sue intense occupazioni sono quelle del servizio alla comunità con la direzione spirituale, la confessione, l’aiuto ai poveri e ai sofferenti. In un periodo trascorso a Rovereto dopo il 1950 approfondisce…aspetti della vita interiore di Rosmini che lentamente lo riavvicinano alla poesia. Sebbene guardasse i problemi e le realtà storiche da un punto di vista soprannaturale e religioso, Rebora non si estranea mai dalla relazione umana, non trascura i fratelli. La sua fede, pur da interpretarsi in certe sue manifestazioni esterne e verbali come legata allo stile ecclesiastico dell’epoca, è in realtà infuocata e dinamica”. “Nell’oscurità” sottolinea il parroco “è il salmo che dice come l’abisso (della disperazione, del dolore, dell’impotenza) invoca l’abisso (della misericordia, della grazia, della liberazione). Saranno la misericordia e la liberazione a vincere, nel grandissimo testamento umano e poetico del suo ultimo anno di vita (1957), l’inno natalizio Gesù il Fedele”.

Il sacerdote-poeta avrebbe composto negli anni luminosi e sofferti del suo ministero pastorale poesie -pubblicate nel volume “Poesie -preghiere da San Francesco ad oggi” curato da Maria ia Risa per l’Editoriale Agorà- come “”Avvicinandosi il Natale”, “Notturno”, Ave Maria”, e “Mater clementissima” (riduzione da Silvio Pellico “La madre degli afflitti”): in quest’ultima lirica, don Clemente con struggenti versi “mariani” ricorda nostalgicamente “Io t’amai da fanciullo; indi partito / da Te sembrai: ma spesso a Te pensando,/ dei lunghi miei errori gemea pentito;/ e in quei giorni di dubbiezza, quando/ torbido e perso nell’orgoglio mio/ segretamente m’andavo crucciando,/ un bisogno invincibile di Dio/ talvolta m’assaliva; e già credevo/ che sol da te mosso a sperar foss’io./ Dentro una chiesa llor mi ritraevo/ cercando la Tua immagine; e in quel viso soave e celestial io tutto ardevo/ di farmi santo sin al Paradiso”.

“Ciò che stupisce in questo inno è l’assenza di ogni sentimentalismo” precisa il reverendo catechista-filosofo “un forte desiderio di pensare la Parola, di comunicare la forza salvifica, che parte dal Bambino inerme ma che giunge fino al suo ritorno apocalittico, come forza di svelamento definitivo del senso della storia e del destino degli uomini. Stupisce questo impegno della parola poetica protesa ad offrire una luminosa e impegnativa metafora (di radice dantesca) del difficile cammino dell’uomo moderno verso la Luce, sempre tale e sempre offerta anche se non accolta. Tre momenti della sua vita lo caratterizzano: esistenzialismo, umanesimo intellettuale dal carattere religioso e filosofico e conversione”.

   La magistrale lectio catechetica continua col soffermarsi acutamente sul significato profondo della poetica reboriana “influenzata da una fiducia religiosa che gli insegna ad amare meglio e donare di più, <assimilando pagine di stupore in una primavera resa verso l’Assoluto>. Attende senza impazienza, né malinconie, il richiamo celeste dell’intimità con Dio. Si lascia inoltre attirare da essa, fino a sentire la voce dell’anima, fuori dei cancelli socchiusi e dentro il tremito dei sensi. La poesia <Dall’immagine tesa> è precedente alla conversione, tuttavia essa mostra già un’anticipazione di quel profondo senso religioso che da lì a non molto si sarebbe sviluppato nell’autore”. Essa è la Poesia dell’attesa per eccellenza o meglio dell’Atteso: “un canto tra i più significativi della irica contemporanea”. Il don Rebora ormai avanti nell’età irà che “L’immagine tesa” è “la mia persona stessa assunta nell’espressione del mio viso proteso non solo verso un annunzio a lungo sospirato, ma forse (confusamente) verso il dulcis hospes animae”, il Paraclito.

La guida spirituale della comunità eupliana di Catania nel riferire che nella seconda parte della poesia l’ospite atteso verrà, spiega come sia difficile il vigilare perché troppe le distrazioni -con taciuto riferimento per i cattolici a non intendere più il significato profondo del tempo liturgico dell’Avvento del Signore che precede la gioia di celebrare in pienezza il mistero della Natività- ma se persevero nell’attesa allora si potrà assistere allo “sbocciare”…Don Fausto nel citare anche Cesare Pavese quando scrive in “Piscina feriale” che “In verità siamo tutti in attesa” afferma a commento del racconto che “c’è un’attesa dentro di noi: La si può ignorare ma mai eliminare”. Egli cita pure Giacomo Leopardi che nello Zibaldone confessa che “L’uomo e il vivente anche nel momento del maggior piacere della sua vita, desidera non solo di più, ma infinitamente di più che egli non ha…”.

“L’iirequietudine dell’uomo, la nostalgia, il senso di mancanza sono le spie che ci ricordano che dobbiamo vivere secondo la nostra natura” afferma padre Grimaldi “ed elevarla alla dignità che merita. Tradire il desiderio d’infinito che è in noi significherebbe chiuderci in una gabbia oppure abbandonarci alla rassegnazione. Trovarsi, invece, in un atteggiamento di attesa comporta fare spazio al silenzio. Questo ci apre all’ascolto, alla scoperta dell’Altro che è nascosto tra le pieghe dell’esistenza. Riscoprire il silenzio per lasciar parlare quella voce interiore, la voce del cuore. Ed è lì che risiede il desiderio di infinito…già l’esperienza del desiderio, del <cuore inquieto> come lo chiamava sant’Agostino, è assai significativa. Essa ci attesta che l’uomo è, nel profondo, un essere religioso, un <mendicante di Dio> (Benedetto XVI, udienza 7/11)”.

“Allora, attesa e silenzio” conclude don Fausto “ci aprono la speranza che la promessa costitutiva del nostro cuore trovi risposta e sia portata a compromesso. Del resto scrive don Clemente prima della sua conversione in questa poesia: <verrà, forse già viene>. Sia nostra la vigilanza che il tempo di Avvento ci chiede, prendendo sul serio l’attesa del nostro cuore. Speme, diss’io, “è uno attender certo/ de la gloria futura, il qual produce/ grazia divina e precedente merto…” (Dante, canto XXV del Paradiso).

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