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Una edizione molto apprezzata dal pubblico, quella del “Brancati” di Catania, de “Il Gallo” di Tullio Kezich, da “Il Bell’Antonio” di Vitaliano Brancati, che si avvale oltre che della funzionale e scorrevole regia di Federico Magnano San Lio della monumentale scenografia – con tanto di emblematica quercia – di Riccardo Perricone. La messinscena, produzione Teatro della Città, in due atti di quasi due ore, si avvale di un cast ben assortito in cui spicca l’interpretazione di Miko Magistro  nei panni di Alfio Magnano, eleganti i costumi, curati sempre da Riccardo Perricone, gioco luci di Sergio Noè e musiche di Germano Mazzocchetti.

Nello spettacolo la disavventura di Antonio è metafora e specchio di una macrotragedia, quella di dimensione epocale del nazifascismo e del suo sogno di onnipotenza. Nella Catania di quel tempo – tra il ‘38 ed il ’42 – dove regnava il “machismo”, il padre Alfio ed il figlio Antonio (chiuso in un destino contrario alla propria natura) diventano il bersaglio della maldicenza della gente e si assiste alla cancellazione del tanto osannato “gallismo”, alla disgregazione di una famiglia, di una città, del ventennio fascista e di una società intera.

Vitaliano Brancati

La riduzione di Tullio Kezich narra la vicenda brancatiana dal punto di vista del padre, fotografando, soffermandosi, sulla microstoria di una famiglia, quella di Alfio Magnano, da giovane soprannominato “Il Gallo” per le sue prestazioni con le donne ed oggi settantenne con tanto di diabete ed altri acciacchi che vive ormai delle gesta del figlio Antonio, personaggio alle prese con un dramma personale, che è quello dell’impotenza, vissuta in una società che la vedeva come un’onta insostenibile.

Il regista Federico Magnano San Lio incentra la nota vicenda sul “gallismo” del padre Alfio Magnano (un superbo – nei gesti e nella recitazione – Miko Magistro), rappresentante di una mentalità che alla fine nasconde, dietro ad un fanatismo sessuale, un vuoto profondo e che vede continuare la sua stirpe con il figlio Antonio (Massimo Giustolisi) bello e conquistatore, che rientra da Roma, dove si dice che abbia sedotto ogni donna della Capitale. Antonio, bellissimo e pieno di fascino, quasi enigmatico, viene visto come una sorta di divinità. Le donne svengono al suo passaggio, il padre decanta la virilità di questo figlio unico, la gente pensa che lui sia influente, vicino al potere e la città non parla d’altro che delle sue doti.

Il manifesto

Il padre Alfio va fiero del figlio, orgogliosa prosecuzione della potenza virile della famiglia Magnano, ma il rientro di Antonio è segno di sconfitta e non ci vuole molto per capire che il ragazzo nasconde un segreto ed infatti il matrimonio immediato con Barbara Puglisi (Eleonora Sicurella), bella rampolla della Catania aristocratica – figlia del notaio Puglisi (Riccardo Maria Tarci) e dell’ancora piacente Agatina (Raffaella Bella), fa venire fuori, tra silenzi ed ammissioni, il problema. Il matrimonio non consumato e il suo annullamento alzano il velo su Antonio, tanto affascinante quanto impotente, che poi confessa il suo problema alla madre Rosaria (una eccellente Olivia Spigarelli). La tragedia, amplificata e resa evidente anche dalla Chiesa con padre Raffaele (Carlo Ferreri) è innescata e l’onore al maschile della famiglia Magnano è definitivamente perduto, tanto che alla fine si consuma la tragedia del padre Alfio che muore sotto le macerie di un bordello in compagnia della povera prostituta Mariuccia (Giada Caponetti). Il crollo di alcuni pezzi della scenografia rappresentano il disgregarsi, il crollo, di una illusione, di una famiglia, di un modo di essere e di una società vuota e pomposa.

L’impianto scenografico di Riccardo Perricone fotografa per intero la Catania del tempo e soprattutto il mondo dei Magnano che vive di esaltazione, di illusioni e che è in decadenza, come la situazione sociale e politica. Una ariosa e monumentale scenografia ad archi, con ai lati una enorme quercia ed un balconcino da dove arrivano le chiacchiere e le insinuazioni da parte del deluso avvocato fascista Ardizzone (Camillo Mascolino) e della figlia zitella Elena (Irene Tetto): il tutto a rappresentare l’avvio della crisi della virilità, della potenza dei Magnano, ma anche della pomposità, della decadenza e del fallimento dell’epoca fascista.

I saluti finali

Spettacolo che riscuote i consensi e gli apprezzamenti del pubblico per l’elegante allestimento, per la regia e per la convincente interpretazione di un sempre in forma Miko Magistro, spalleggiato da un cast di livello.

Ancora una volta il lavoro si conferma come dramma dolceamaro, metafora del confronto tra l’onnipotenza del nazifascismo e la fragilità umana, che può portare a un malessere come quello di Antonio. La pièce, attraverso la penna di Vitaliano Brancati e nella riduzione di Tullio Kezich, ci riporta poi una Sicilia lontana dagli stereotipi e dai facili ammiccamenti, dove prevalgono, oltre alla retorica di costrizione e costruzione del ridicolo, ai meccanismi d’interesse, alla sensualità e alla carnalità, anche le cose taciute, i segreti del talamo, l’impotenza o il peso di un ruolo non voluto.

Lo spettacolo verrà replicato, all’interno della stagione di prosa del Teatro Brancati di Catania, fino al prossimo 6 Maggio.

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