“…Dal cortile che confina // con l’università // salta fuori una gallina // che una domanda fa: // «Coccoroccocò, sentiamo un po’!
Professore, per favore, // mi vuol dir se è nato prima // l’uovo oppure la gallina?» // Che figura, il professore non lo sa…”.
Queste due strofe, estratte dalla canzone “La classe degli asini”, erano cantate da Natalino Otto, lo stesso che accompagnava le partite di un Catania d’altri tempi (1960 – Forza Catania! (Alberti – Sanfilippo – Gangemi). Ma le due canzoni non sono incoerenti come, a prima (s)vista potrebbe sembrare. E non è come “sparare sulla Croce rossa” ma fare un bel mea culpa collettivo per acquisire la consapevolezza che Catania questa è.
Si può cincischiare nella ricerca di colpe – presenti, passate o trapassate – ma la verità è che il bandolo non sembra facilmente rinvenibile. Se la squadra di calcio piange, il resto non ride. Manca quasi sicuramente una vera classe dirigente e manca anche perché l’esodo da questa terra è quasi coatto, quasi “biblico”. I giovani rimangono solo quando sono spinti da una forza che, per quanto stupenda, è inspiegabile, quasi autolesionistica. Per la maggior parte è come se l’ostracismo sia una regola. A Catania manca persino il sindaco, quello eletto, cioè…
È colpa di Cosentino o di Mancini, dei Soci-Sigi o di Pulvirenti? O di Lo Monaco che non doveva rompere il binomio con Pulvirenti o di Pulvirenti che non doveva rompere quello con Lo Monaco… È tutto un loop, è la storia – cioè – dell’uovo e della gallina… E la canzone citando università e cortile (tra l’altro, come confinanti) sembra persino scritta su misura… Se manca una classe dirigente in un territorio in cui c’è un Ateneo ma in cui regna una ciclopica presunzione, una supponenza dilagante, un’autoreferenzialità spocchiosa, la cosa non può essere liquidata con uno scaricabarile inutile. Siamo tutti colpevoli pro-quota e la vicenda del de cuius “Catania 46” è emblematica e ci fa tutti corresponsabili, pro-quota.
È stolto prendersela con uno che viene da fuori e che ha nutrito (e forse nutre ancora) interessi diversi dai nostri. Non trovare un subentrante (la parola acquirente, seppur giuridicamente congrua, mi suona cacofonica) neanche collettivo, disposto a metterci soldi (relativamente pochi) e la faccia, è abbondantemente significativo e apre spiragli a supposizioni persino criptiche. Quel “nutre ancora” è doveroso, per lo meno se ci si domanda: che senso avrebbe avuto il versare soldi, anche se risultati in quantità insufficiente in cambio di nulla?
Questo e tanto ancora (peraltro, copiosamente scritto da altri) mi ha ricordato “La classe degli asini”.
Città irredimibile? Molto avvincenti e quasi interamente condivisibili, oltreché a tratti profetiche, le «Due o tre cose che so di Lei (deux ou trois choses)»; “Lei” è Catania, a cui Antonio Di Grado ha dedicato «passi a piedi, passi a memoria tra le maschere e le icone d’una città smodata, nel suo cuore di prorompente vitalità che riversa arguzie e malumori, disinganno e dileggio, candore e ferocia, ostinate inerzie e gaia anarchia».
Ma… alla sciugghiuta da nivi…
La rifondazione (il “de cinere surgam” dell’araba fenice) non sembra a portata di mano. Catania, la mia amata Catania, la città dei miei genitori e dei miei figli, ha bisogno di bombe energetiche di educazione permanente. Sperare non è vietato; nel calcio come nel tutto.
Salvo Nicotra si è occupato di così tante cose da sentirsi – talora – come uno che non ha concluso niente (lo diceva anche Luigi Tenco ma lui era un grande!)… Laurea in Lettere all’Università di Torino con tesi in Storia del Teatro (più precisamente, sull’attualità dell’Opera dei Pupi; Antonio Attisani, relatore; Alfonso Cipolla, correlatore), regista teatrale, uomo di cultura e di sport, ha collaborato sin dalla (lontana) giovinezza e collabora – nella “maggiore età” – con varie testate giornalistiche; nella “precedente vita” è stato lavoratore pubblico e dirigente sindacale.