Cultura

La leggenda del miracolo di S. Agata che salvò i catanesi dal re e imperatore Federico II di Svevia, figlio della normanna Costanza d’Altavilla e nipote paterno di Federico Barbarossa, riguarda un argomento considerato “leggendario”, ma ancora rimasto quasi avvolto in un enigmatico mistero anche se riveste una notevole importanza per il culto agatino e il patrocinio civico della protomartire concittadina, che hanno lasciato diverse tracce e memorie meritevoli di essere in qualche modo ricordate.

   Secondo la tradizione, l’evento “prodigioso” dell’acrostico agatino NOPAQUIE (sciolto in Noli offendere patriam Agathae quia ultrix iniuriarum est, Non ti rischiare di offendere la patria di Agata perché lei vendica le ingiustizie”) pare sia avvenuto in Cattedrale, durante la celebrazione del “pontificale” presieduto dal vescovo benedettino Gualtiero de Palear (che era stato cancelliere del Regno di Sicilia, nominato dal papa curatore di Federico per controllare il sovrano minorenne, vescovo di Troina e di Palermo), proprio il giorno 5 febbraio 1232, 981° anniversario del martirio di S. Agata e che l’imperatore Federico, dopo aver ritirato l’editto di distruzione della città e di sterminio a fil di spada dei cittadini ribelli, abbia ordinato ai catanesi di fare solo un atto di umiliazione in segno di obbedienza, passando davanti ai militi imperiali sotto il gioco ad una porta stretta, chiamata “Porta di Mezzo”, sull’architrave della quale sarebbero state appese due spade che sfioravano con la punta le teste dei catanesi (una sorta di forche caudine usate dai Sanniti di Gaio Ponzio Telesino allorché nel 321 a.C. sconfissero i Romani).

   C’è da precisare che nel 1222 morì la prima moglie di Federico, Costanza d’Aragona, a Catania, dove sarebbe nato l’erede al trono Enrico VII e dove nel 1226 Federico sarebbe ritornato con la seconda moglie Iolanda di Brienne. La storia tramanda che proprio nel 1232, mentre la peste imperversava su Palermo, Catania avrebbe offerto rifugio a Federico e alla sua terza moglie, Bianca Lancia. Il vescovo Gualtiero, in seguito, da Federico fu espulso da Catania e mandato in esilio.

   Presso questa antichissima porta, preesistente all’invasione araba, fu eretta un’edicola votiva ricordo in onore della Madonna, che fu chiamata appunto della “Grazia”, con un’immagine di S. Agata dipinta sul lato destro, cosa che in tempi recenti è stata in qualche modo ripristinata dopo lavori di ristrutturazione della Cappella di via Santa Maria delle Grazie (tra le vie Garibaldi e V. Emanuele), corrispondente all’antico passaggio di collegamento con via Pozzo Canale e sottostante un grande palazzo settecentesco. Il prodigioso quadro della Madonna, è pregevole opera su lastra di pietra d’ardesia, dipinta da Antonio Gramignani o dal sac. Francesco Gramignani. Il 15 agosto 1932 il quadro fu portato in solenne processione in occasione della ricorrenza del VII centenario del NOPAQUIE. Questa scritta nel 1296 (46 anni dopo la morte dello “Stupor mundi” fu trionfalmente dipinta nel tetto della Cattedrale normanno-sveva). Nella facciata principale settecentesca del Duomo, ricostruita da G.B. Vaccarini, nell’architrave esterna della porta sinistra si leggono le iniziali N.O.P.AQ.U.I.E..

   Federico, secondo alcune ipotesi, sarebbe stato raffigurato sul bellissimo portale, romanico-pugliese, d’ingresso (autocelebrativo?) del santuario di Sant’Agata al Carcere che fino al 1734 ornava l’entrata principale della Cattedrale. L’architetto canonico Giovambattista Vaccarini lo fece spostare prima presso il palazzo della Loggia (poi degli Elefanti) e nel 1762, donato alla Confraternita del Santo Carcere, fu rimontato e incassato nella facciata barocca della ricostruita chiesa del Santo Carcere. Probabilmente, in origine, il portale medievale (che non presenta nessun simbolo cristiano esplicito) avrebbe decorato, ancor prima del Duomo normanno-svevo, l’ingresso principale di Castello Ursino. “L’osservatore non sprovveduto –scrive don Luigi Minio in <Agata e la sua memoria nella città di Catania> (Arca, 2004)- potrà riconoscere nella saggia barba imperiale lisciata, nella scimmia frustata per non poter inghiottire la palla, nell’orsa col naso informe, nell’aquila strozzata, nell’Idria a molti capi, pure scavezzata e in tanti altri simboli, un pezzo di storia ducentesca, sia pure vista con gli occhi di chi vuol adulare un potente protettore”.

   Nel sito web del santuario si legge che “si tratta di una testimonianza unica e di altissima qualità artistica della scultura di età sveva, datata intorno al 1235. Realizzata in marmo bianco di Carrara, è composta da archi strombati a tutto sesto, sorretti da esili colonnine; tutti gli elementi architettonici sono decorati con raffinati motivi vegetali o geometrici con inserti di figure umane e bestiali”. L’elemento su cui però maggiormente si è concentrata l’attenzione degli studiosi sono le figure allegorico-grottesche che si possono ammirare sopra i capitelli, e che sono state variamente interpretate (anche) come rappresentazione simbolica dei controversi rapporti fra Federico II e Catania. Considerato il portale dal punto di vista simbolico, si può notare a sinistra una figura maschile (Federico?) assisa sul faldistorio nell’atto di accarezzarsi la lunga barba e a destra un gruppo scultoreo che sembrerebbe rappresentare una figura femminile (Catania?) nell’atto di offrire un toro e un agnello, tipici animali sacrificali. La stessa costruzione, nel 1239, del Castello Ursino, a difesa della città, sarebbe stata attribuita alla decisione di Federico di ammonire e vigilare la condotta dei catanesi.

  L’avversione della curia vescovile di Catania -dovuta al fatto che Federico aveva sottratto la città alla giurisdizione feudale-normanna del vescovo-abate-conte per inserirla fra le città demaniali- avrebbe alimentato diverse leggende che denigravano la figura dell’imperatore scomunicato e il potere regio dei successivi sovrani di Sicilia. La ribellione contro il potere regio, -che avrebbe dato origine all’episodio catanese del NOPAQUIE, raccontato dagli eruditi del Seicento- storicamente è documentata solo per Messina, Siracusa, Troina, Nicosia e Centuripe: la rivolta fu causata dall’enorme aggravio fiscale sopportato dai siciliani per finanziare la guerra di Federico in Germania. Per quanto riguarda Catania, pare che l’imperatore l’abbia fatta radere al suolo e che ne abbia permesso la ricostruzione a condizione che i nuovi edifici fossero costruiti con impasto di fango e con determinate misure.

Antonino Blandini

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