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In principio l’uomo impara a dare un nome alle cose. Inizia così la sua conoscenza del mondo, il suo cammino cognitivo e la sua memoria. Le parole non sono semplici suoni. Creano un ordine, organizzano il mondo e lo conservano in memoria. Quando la mente invecchia, non riuscire a richiamare il nome delle cose, perdere le parole può essere un primo campanello d’allarme e un primo segnale dell’inizio di un declino. Anche le emozioni hanno un nome. Sono arrabbiato, felice, sorpreso, dispiaciuto, triste, risentito, disgustato, impaurito. Dare un nome alle emozioni mette ordine al nostro mondo interiore, ci aiuta a dare un valore alle cose e a rispondere in maniera adeguata agli eventi. Senza le emozioni, il mondo perde il suo colore e tutto si confonde in un universo tristemente privo di significati personali. “Il mondo è grigio, il mondo è blu”. Scompare ogni altra colorazione, ogni significato che ciascuno di noi può attribuire alle cose, alle situazioni, alle relazioni. Non sapremmo cosa desiderare perché tutto avrebbe un unico valore.

Due ricercatori catanesi, Daniela Smirni (1) e Sergio Paradiso (2), nell’ambito di un ampio progetto di collaborazione con il Dipartimento di Gerontologia dell’Università del Nebraska, e con la neuroscienziata americana, Janelle N. Beadle (3), hanno recentemente pubblicato, in una prestigiosa rivista internazionale, Journal of  Nervous and Mental Disease, i risultati delle loro ricerche sulle emozioni in pazienti con malattia di Alzheimer in fase iniziale e pazienti con decadimento cognitivo lieve. La difficoltà di dare un nome alle proprie emozioni, che gli esperti chiamano alessitimia, è stata studiata soprattutto in pazienti psichiatrici e psicosomatici.

Un posto di rilievo occupano le ricerche del prof. Paradiso che, da anni, studia l’alessitimia in varie popolazioni cliniche. I due ricercatori siciliani per la prima volta studiano le emozioni nella demenza di Alzheimer e nel danno cognitivo lieve. Tale malattia distrugge implacabilmente la capacità di utilizzare le informazioni del mondo che ci circonda, creare nuovi ricordi e mantenere quelli già conservati in memoria. Anche i comportamenti più semplici della vita quotidiana, lavarsi, vestirsi, alimentarsi, diventano complessi e, alla fine, riconoscere i familiari, i luoghi dei propri affetti e perfino se stessi diventano compiti impossibili. Una patologia drammatica che anche per la sua dimensione quantitativa è stata definita un'<epidemia silente>. Una patologia che rappresenta una grave emergenza con la quale il sistema sanitario è costretto a confrontarsi in maniera sempre più urgente.

I risultati dei ricercatori catanesi documentano che i pazienti Alzheimer e quelli con minimo danno cognitivo, fin dal primo apparire del processo neurovegetativo, cominciano a manifestare difficoltà nella gestione del loro mondo emotivo. Perdono gradualmente la capacità di identificare e dare un nome alle proprie emozioni.”Spesso non riesco a capire quello che succede dentro di me”, “Spesso non so perché mi sento strano”, “A volte non riesco a trovare le parole per dire come mi sento dentro”.

Non solo il mondo esterno perde i suoi riferimenti spazio-temporali, ma anche il mondo delle emozioni appare confuso e dominato da reazioni emotive scarsamente comprensibili. Oltre la memoria, quindi, il decadimento cognitivo coinvolge anche la dimensione emozionale. Di estremo interesse un dato della ricerca. Sin dalle prime fasi di entrambe le patologie, le difficoltà di identificazione e denominazione delle emozioni si accompagnano alla compromissione della memoria verbale: più la memoria verbale è danneggiata, più severa appare la difficoltà di consapevolezza emozionale.  Sotto il profilo neuroriabilitativo, la ricerca suggerisce nuovi orizzonti: un approccio integrato alle problematiche cliniche dell’Alzheimer e del danno cognitivo minimo, fin dal loro esordio. Qualunque progetto riabilitativo non può essere centrato esclusivamente sulla dimensione cognitiva. Solo un programma di interventi integrato, attento anche alle difficoltà nella dimensione emozionale di questi pazienti, può risultare efficace, rallentare l’inevitabile decadimento e migliorare la qualità della propria vita e delle loro famiglie.

Antonino Blandini


(1) Daniela Smirni: ricercatore presso il Dipartimento di Scienze psicologiche, pedagogiche dell’esercizio fisico e della formazione dell’Università di Palermo. I principali interessi di ricerca: neuropsicologia della memoria, studio dei processi di memoria episodica in soggetti sani e in pazienti amnesici. Attualmente sta lavorando sulla sperimentazione di protocolli di riabilitazione per disturbi della memoria in malattie neurodegenerative utilizzando tecniche neuromodulatorie cerebrali non invasive.

 

(2) Sergio Paradiso: psichiatra e psicoterapeuta, ricercatore, conferenziere a livello internazionale, già docente nella facoltà di Psichiatria nell’Università dell’Jowa (USA)

 

(3) Janelle N. Beadle: ricercatore presso il Dipartimento di Gerontologia dell’Università del Nebraska di Omaha. Studia le basi del cervello dell’empatia nell’invecchiamento sano e nelle malattie legate all’invecchiamento attraverso esperimenti comportamentali, questionari, neuroimmagini e indagini ormonali.

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