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I miei ricordi di Pietro Anastasi, “Petru ‘u Turcu”, non hanno niente a che vedere, pur essendo praticamente coetanei (lui, più “grande” di soli sei mesi), con i mattoni degli oratori salesiani che non ho mai frequentato. Il pallone lo rincorrevo sul lastricato pubblico di piazza Borgo (quella ufficialmente intestata al primo ministro dei conquistatori sabaudi).  Con i gemelli Pippo e Placido Gerbino e con gli altri ragazzi non avevamo bisogno di barattare la sfera col bollino della Messa; a Messa ci andavamo, comunque. Se con Anastasi ci fossimo incontrati, però, ne avrei avuto di cose da raccontare, visto che da centromediano (si diceva “stopper”) col numero cinque avrei dovuto “marcare” proprio lui che portava il nove, pur non essendo un centravanti “puro”, di quelli del suo tempo (nella Juve il “9” appartenne, ad esempio, prima a Charles, poi a Boninsegna (non “Duccio da” ma la “merce” dello scambio con l’Inter, soprannominato “Bonimba”). Boninsegna era stato, peraltro, proprio colui che lo aveva sostituito nella spedizione italiana al Campionato del mondo del 1970.

Invece, l’unica volta che ricordo di averlo incontrato fu proprio a Torino, nell’elegante Galleria San Federico, dove c’era (e credo che ci sia tuttora) il cinema Lux e soprattutto la sede del prestigioso quotidiano della FIAT (“La stampa”). C’era anche la sede della squadra che non amo, la Juventus, della quale Anastasi fu pilastro – anche discusso e, ricordo, nell’ultimo periodo, contestato – ma complessivamente amato e fondamentale. E come poteva non essere amato dalla moltitudine di meridionali tifosi della “Goeba” abitanti nel capoluogo piemontese? Erano i lavoratori che «si facevano il mazzo in fabbrica» e percepivano Anastasi come «uno di loro», un ragazzo di Sicilia andato a cercar fortuna lontano di casa (“Ma è caldo il pane lassù nel Nord”, aveva già cantato Sergio Endrigo); «Ricordo che mi fermavano fuori dello stadio e mi dicevano di farmi valere anche per loro. Mi rendeva orgoglioso» (Nicola Calzaretta, Guerin Sportivo, maggio 2015 – cfr.: https://it.wikipedia.org/wiki/Pietro_Anastasi).

Erano i tempi (certe cose oggi sono impensabili; già!) in cui una gioia di ragazza “piemontese” doc, normalmente amica di tanti meridionali, fu costretta ad abortire perché aveva concepito da un palermitano. Del mio amico, prete-operaio siciliano, invece, i genitori di altra gioia piemontese doc dicevano che non potesse essere prete; non perché fosse operaio ma – si provi a indovinare il perché… 

Per la Juve mandò il pallone in rete 132 volte in 307 partite giocate nelle varie competizioni. Ma giocò anche nell’Inter, forse malvolentieri, per due stagioni senza riuscire ad ambientarsi a Milano né a dare ai nerazzurri quello che aveva dato ai bianconeri. A dimostrazione di che colore fosse la sua pelle, In Italia completò la carriera (prima di un breve congedo con il Lugano) sempre con una maglia bianconera addosso, quella dell’Ascoli. Un caso?

È morto a Varese, crocevia fondamentale della sua attività. Era nato il 7 aprile 1948 a Catania, nel popolare quartiere – se non ricordo male – del Fortino (su Wikipedia si parla della Zona industriale) ma della sua città non indossò mai la maglia più importante, ma quella della Massiminiana (che, sempre se non ricordo male, si chiamava Massiminiana-Scat per un connubio tra, appunto i Massimino e la società che gestiva la mobilità urbana) negli anni 1964-1966 in Serie D. Il Catania nel campionato 1965-66 non brillava particolarmente; anzi, per essere precisi, retrocedette dalla Serie A alla Serie B e, come da tradizione consolidata i suo tifosi (scettici e volubili, come sono davanti alle difficoltà) l’abbandonarono, facendosi attrarre dalla squadretta che copriva gli avversari sotto coltri di reti. Questa squadra, Massiminiana, appunto, fu accompagnata in Serie C dalle reti dal giovanissimo talento Anastasi (e, mi pare, di un altro attaccante prolifico, Di Pietro), richiamando in alcuni casi oltre ventimila spettatori nel vecchio Cibali, già famoso per il clamore di “Tutto il calcio minuto per minuto”. In occasione di Catania-Varese, un contrattempo e indicazioni ricevute indussero il d. s. ospite Alfredo Casati ad assistere all’incontro che la Scat aveva con, mi pare, il Paternò. Cominciò quel giorno la fiaba del ragazzo, eletto a emblema dell’emigrante che fa fortuna al Nord.

Dicevo che lo vidi in Galleria… Avevano da qualche ore ufficializzato le convocazioni per una partita della Nazionale ed egli proveniva dalla sede del suo club; trotterellava insieme a un bimbo che ovviamente era suo figlio; sembravano due coetanei, sembravano due Pasque. Ci siamo salutati pur senza conoscerci.

Grazie anche a una sua spettacolare rete in mezza rovesciata l’Italia batté, il 10 maggio 1968 a Roma la Jugoslavia nella ripetizione della finale (la prima partita era terminata a reti inviolate d. t. s.) per il titolo continentale. Fu un trionfo e fu uno dei trofei conquistati; lo fecero cavaliere delle Repubblica con dispensa per la non maggiore età (che allora si raggiungeva al compimento del 21° anno). Ma non si può dire che sia stato fortunato. Ad esempio – come dicevo prima – fu sostituito da Roberto Boninsegna ai Mondiali per un misterioso (fortuito?) incidente patito in allenamento alla vigilia della partenza. Allora tutto il Sud del mondo gridò al complotto!

Gli si riconosceva una mantenuta sbalorditiva genuinità (cioè, ingenuità). Debbo confessare che è l’unico a cui ho sempre perdonato la “juventinità” e che, perciò, ho sempre preferito ricordare con la maglia azzurra, saltare avversari ed avversari, guizzare verso l’area e – magari – rinunciare all’azione personale per servire un compagno che aveva visto in posizione favorevole.

È, di diritto, dentro la storia del calcio italiano, oltre che in quella delle squadre in cui ha giocato; ed è anche – a furor di popolo – dentro la storia del calcio siciliano e catanese in particolare. Chissà che ne pensa Parmitano e chissà se abbia avvertito la sua ascesa verso l’alto oltre a cui non si può andare.

Salvo Nicotra

Salvo Nicotra si è occupato di così tante cose da sentirsi – talora – come uno che non ha concluso niente (lo diceva anche Luigi Tenco ma lui era un grande!)… Laurea in Lettere all’Università di Torino con tesi in Storia del Teatro (più precisamente, sull’attualità dell’Opera dei Pupi; Antonio Attisani, relatore; Alfonso Cipolla, correlatore), regista teatrale, uomo di cultura e di sport, ha collaborato sin dalla (lontana) giovinezza e collabora – nella “maggiore età” – con varie testate giornalistiche; nella “precedente vita” è stato lavoratore pubblico e dirigente sindacale.

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