Cultura

“A Catania la quaresima vien senza carnevale; ma in compenso c’è la festa di Sant’Agata, -gran veglione di cui tutta la città è teatro- nel quale le signore, ed anche le pedine, hanno il diritto di mascherarsi, sotto il pretesto d’intrigare amici e conoscenti, e d’andar attorno, dove vogliono, come vogliono, con chi vogliono, senza che il marito abbia diritto di metterci la punta del naso”.

   Così inizia la pagina dedicata alla festa di s. Agata contenuta nella novella “La coda del diavolo” da “Primavera ed altri racconti” (1877) di Giovanni Verga. In quell’anno bisestile la coincidenza del carnevale con la festa di s. Agata fu piena; addirittura il giorno anniversario del martirio era il <martedì grasso>! Ciò dipende dalle ricorrenze mobili del calendario <romano>, che fece  registrare la Pasqua <bassa> domenica 23 marzo, dal momento che il plenilunio immediatamente successivo all’equinozio di primavera cadeva nello stesso giorno 21, venerdì della settimana santa. Dalla data della domenica di Risurrezione del Signore dipendono tutte le ricorrenze mobili che sono state annunciate liturgicamente nella solennità dell’Epifania.

   Lo scrittore catanese indugia a descrivere minutamente il <diritto di ‘intuppatedda”, che nell’ultimo quarto di secolo dell’Ottocento era già un fenomeno in estinzione (ma fino a circa 50 anni fa ordinanze comunali ancora vietavano l’uso del “domino”: “…il quale, checché ne dicano i cronisti, dovette esserci lasciato dai Saraceni, a giudicarne dal gran valore che ha per la donna dell’harem”.

   Verga scrive che “il costume componesi di un vestito elegante e severo, possibilmente nero, chiuso quasi per intero nel manto, il quale poi copre tutta la persona e lascia scoperto soltanto un occhio per vederci e per far perdere la tramontana, o per far dare al diavolo. La sola civetteria che il costume permette è una punta di guanto, una punta di stivalino, una punta di sottana o di fazzoletto ricamato, una punta da far vedere insomma, tanto da lasciare indovinare il rimanente”. Tale abbigliamento mascherato veniva chiamato anche “occhiali” o “babaluci”, cioè chiocciola, da cui l’espressione “andare babalutati”.

   La novella, successivamente, presenta il modo di fare disinvolto della donna così travestita ed irriconoscibile: “Dalle quattro alle otto o alle nove di sera la ‘intuppatedda è padrona di sé (cosa che da noi ha un certo valore), delle strade, dei ritrovi, di voi, se avete la fortuna di esser conosciuto da lei, della vostra borsa e della vostra testa, se ne avete; è padrona di staccarvi dal braccio di un amico, di farvi piantare in asso la moglie o l’amante, di farvi scendere di carrozza, di farvi interrompere gli affari, di prendervi dal caffè, di chiamarvi se siete alla finestra, di menarvi pel naso da un capo all’altro della città, fra il mogio e il ridicolo; di farvi pestare i piedi dalla folla, di farvi comperare, per amore di quel solo occhio che potete scorgere, sotto pretesto che ne ha il capriccio, tutto ciò che lascereste volentieri dal mercante, di rompervi la testa e le gambe –le ‘intuppatedde più delicate, più fragili, sono instancabili, – di rendervi geloso, di rendervi innamorato, di rendervi imbecille, e allorché siete rifinito, intontito, balordo, di piantarvi lì, sul marciapiede della via, o alla porta del caffè, con un sorriso stentato di cuor contento che fa pietà, e con un punto interrogativo negli occhi, un punto interrogativo fra il curioso e l’indispettito”.

   L’<affresco> così si conclude: “Per dir tutta la verità, c’è sempre qualcuno che non è lasciato così, né con quel viso; ma sono pochi gli eletti, mentre voi ve ne restate colla vostra curiosità in corpo, nove volte su dieci, foste anche il marito della donna che vi ha rimorchiato al suo braccio per quattro o cinque ore –il segreto della ‘intuppatedda è sacro. Singolare usanza in un paese che ha la reputazione di possedere i mariti più suscettibili di cristianità!”.

   Questo era uno degli aspetti più appariscenti di una festa né sacra né profana alla quale il popolo partecipava intensamente, festa intesa nel suo significato più pieno: provvisorio abbandono della propria identità, travestimento, divertimento spensierato.

Antonino Blandini

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