Serietà, dedizione ed amore per il suo lavoro sono alcune delle qualità di Giuseppe Ferlito, attore e regista ragusano, spesso protagonista nei lavori del Centro Teatro Studi di Ragusa diretto dal regista catanese Franco Giorgio. Diplomatosi come attore nella più antica scuola d’arte drammatica del nostro paese, l’Accademia dei Filodrammatici di Milano, Giuseppe Ferlito si è formato con i più grandi maestri europei quali Nikolay Karpov (allievo di Stanislavskij), Lindsay Kemp, Maria Shmaevic, Peter Clough, Karyna Arutyunyan, Francois Khan (allievo di Grotowski), Elisabeth Boeke, Mamadou Dioume. Si è diplomato nel 2009 come doppiatore all’Adc Group Doppiaggio di Milano lavorando con importanti doppiatori italiani quali Maria Rizzoli, Bruno Slaviero, Tonino Accolla e Claudio Sorrentino.
Dal 2010 al 2014 ha lavorato come speaker radiofonico e ha interpretato numerosi radiodrammi per la RAI, diretto da Massimo Loreto ed ha prestato la voce per spot radiofonici e televisivi e documentari. Ha lavorato con Luca Zingaretti, Alberto Sironi, Vito Molinari, Alda Merini, Elisabetta Pozzi, Milena Vukotic, Rosa Miranda, Miko Magistro, Tuccio Musumeci. A Catania ha ottenuto unanimi consensi questo inverno, nell’ambito della stagione dello “Stabile” etneo, con l’intenso spettacolo “Novecento”, per la regia di Franco Giorgio. Nel 2021 ha firmato la riduzione teatrale del romanzo “OceanoMare” di Alessandro Baricco, approvata e sostenuta dallo stesso autore. Lo scorso 6 giugno ha diretto al Teatro Donnafugata di Ragusa Ibla “Antigone” di Sofocle, frutto del laboratorio di recitazione condotto dallo stesso attore e doppiatore ragusano nel liceo Classico di Ragusa. Protagonista di una estate frenetica e ricca di impegni e con una valigia piena di progetti, ho voluto conoscere meglio Giuseppe Ferlito con la mia solita chiacchierata social ed il mio intelocutore è stato felicissimo di rispondere alle mie domande, tracciando così un profilo personale ricco di curiosità e facendosi conoscere meglio da coloro che spesso lo apprezzano a teatro.
Quando hai capito che il tuo lavoro doveva essere quello dell’attore? Chi hai trovato vicino quando hai scelto di intraprendere il tuo percorso, chi ti ha appoggiato o contrastato?
“Ho compreso che fare l’attore sarebbe diventato il mio mestiere perché solo col Teatro riuscivo a essere me stesso essendo altro da me. Questa apparente dicotomia è stata da sempre il termometro della mia passione e i miei genitori, ricettivi a questo fervore, mi hanno sempre incentivato a non spegnerlo. A parte qualche amore “sbagliato” che non si è rivelato rispondente al mio entusiasmo non ho trovato nessuno che ostacolasse i miei desideri. Forse sono stato proprio io l’unico vero nemico di me stesso, ma questa è un’altra storia“.
I tuoi primi passi…
“Ho mosso i miei primi passi grazie a mia madre che mi portò al Centro Teatro Studi di Ragusa diretto da Franco Giorgio. I miei genitori sono sempre stati il mio pubblico più fedele e appassionato e un giorno mia madre, riconoscendo evidentemente del talento nelle mie “performance”, mi esortò a fare un corso di recitazione. Fu così che conobbi Franco Giorgio e iniziai ad alfabetizzare i miei strumenti. Successivamente, dopo il diploma al liceo classico, decisi di fare i provini all’Accademia dei Filodrammatici di Milano dove fui ammesso, vincendo la lotteria più importante della mia vita. Non smetterò mai di ringraziare mia madre per quell’amorevole sesto senso che solo certe madri sanno avere”.
Chi ricordi con più affetto tra i tuoi maestri e cosa ti hanno lasciato le esperienze lavorative come doppiatore e come speaker radiofonico?
“Ho lavorato in RAI grazie a Massimo Loreto, il mio insegnante di dizione all’Accademia, purtroppo recentemente scomparso. Massimo era un attore e un Maestro impareggiabile: un uomo immenso e con un grande cuore. Sono stati anni meravigliosi quelli trascorsi insieme a lui a Lugano, storica sede svizzera RAI, anni in cui ho imparato molto e in cui ho avuto modo di vedere all’opera giganti come Giulio Bosetti e Mario Ferrero. Ho affiancato Massimo Loreto registrando insieme a lui parecchi radiodrammi spaziando da Camus, Stendhal, Calvino, Dostoevskij, Alfieri, García Lorca. Sono molti i Maestri che porto nel cuore, come Massimiliano Cividati, regista e attore milanese, uomo di grande acume e di raro carisma che mi ha preso per mano sin dai primi giorni in Accademia senza mai mollare la presa fino al momento del diploma: da lui, per esempio, ho imparato che si può anche sbagliare sul palco, ma ciò che conta davvero è “sbagliare con dignità”. Poi ho ricordi indelebili di Nikolay Karpov, Karina Arutyunyan, Sonia Grandis, Riccardo Pradella, Lindsay Kemp ed Elisabetta Pozzi, nostra Signora del Teatro. E poi Franco Giorgio, il mio “papà artistico”, Maestro, regista, amico attento e sensibile, a cui devo tutto e a cui ritorno sempre come quando un figlio cerca sempre il proprio padre. Lui mi ha letteralmente “salvato” la vita, ogni volta che vivevo un periodo difficile c’è sempre stato lui ad aprire la finestra sul buio e a ossigenarmi col Teatro. Gli sono molto grato”.
Gli incontri con Zingaretti, Sironi, la Pozzi e la Vukotic, Magistro e Musumeci. Cosa ti hanno trasmesso, come ti hanno arricchito per proseguire il tuo percorso?
“Ognuno di loro mi ha insegnato qualcosa, non so dirti esattamente cosa, ma ciò che più mi è rimasto di questi incontri è certamente una profonda serietà e un approccio di solerte abnegazione riguardo al mestiere dell’attore. Ricordo con estrema commozione e ti confesso anche con una certa nostalgia, quando Elisabetta Pozzi venne al Teatro dell’Accademia dei Filodrammatici: io ero un giovane allievo e la guardavo con gli occhi dell’amore, mi vidi tutte le repliche di Fedra, lo spettacolo che allora portava in scena, sorprendendomi sempre a commuovermi; quando poi venne in Accademia per parlarci dei grandi protagonisti della tragedia greca, noi allievi eravamo letteralmente irradiati dalla luce che dominava i suoi occhi e che riusciva ad animare persino l’aria intorno. Ecco, si, credo sia questa la lezione più importante che abbia imparato da lei: mantenere costantemente viva la fiamma e alimentare amorevolmente la passione, perché solo la luce della fiamma focalizza i dettagli, esattamente come fa il sole quando penetra in un ambiente, che ci permette di vedere addirittura il pulviscolo di particelle che gravitano in aria”.
Come è cambiato negli anni il tuo modo di fare teatro, di adattare un testo, di costruire o dirigere uno spettacolo?
“Fino a qualche anno fa cercavo di studiare e “gestire” ogni tappa del processo di preparazione di uno spettacolo, avevo un approccio più razionale. Ma il Teatro riesce sempre a scardinare le mie certezze: adesso ogni lavoro che intraprendo nasce, si sviluppa e cresce come un seme che ha bisogno di luce per esplodere fuori dalla scorza e mi faccio investire totalmente dal processo creativo, mi lascio coinvolgere così tanto da riuscire a vivermi solo l’esplosione, dimenticando l’approccio più razionale e quasi matematico che avevo prima. Adesso mi lascio andare di più al naturale corso degli eventi, diventando parte integrante del processo. E quando tutto finisce e il sipario si chiude guardo la pianta, cioè la storia che ho raccontato o il personaggio che ho interpretato, e il pubblico riesce sempre a farmi vedere di nuovo il seme. È una sensazione incredibile”.
Pregi e limiti di corsi e scuole di recitazione. Qualcuno li definisce un modo per fabbricare illusioni nei giovani. Tu cosa ne pensi?
“Troppo spesso i giovani vengono tacciati di mancanza di interessi e troppe volte affermiamo che essi siano posseduti da una certa apatica indolenza. Ammesso che sia vero, e fermamente non lo credo, ci siamo mai chiesti il perché? Siamo soliti prendercela con le nuove generazioni perché pare siano animate e dipendenti solo dalla tecnologia. Premettendo che dal palco, quando mi esibisco, vedo sempre i volti dei più avanti negli anni illuminati dallo smartphone, ritengo che non sia esattamente così perché tutti, nessuno escluso, siamo completamente assuefatti e intorpiditi da essa. I ragazzi non sono disinteressati o poco predisposti ad andare a Teatro, semplicemente non sono coinvolti perché i teatri sono troppo impegnati a programmare stagioni stantíe e polverose. E così troviamo sempre in cartellone i soliti Martoglio, Pirandello, Shakespeare, Verga, Molière, Goldoni. Questo costante lamento, così sterile e poco edificante, nega qualsiasi responsabilità che, mai come adesso, i teatri invece dovrebbero sentire. Questi invece potrebbero avere un immenso ruolo calamitico se solo cambiassero certe “tendenze” tradendo l’aspettativa dei più vetusti. Non è vero che i ragazzi sono apatici, sono poco attratti”.
Uno spettacolo, un personaggio, un fatto che ricordi con più soddisfazione durante la tua carriera…
“Il personaggio che ricordo con più soddisfazione nella mia carriera è indubbiamente Clotilde in “Mamme e Narcisi” di Carlo Terron, una commedia en travesti la cui regia era di Vito Molinari, pietra miliare della regia televisiva RAI degli anni 60/70 e autore di centinaia di programmi tra cui “Canzonissima”, “Macario uno e due”, ma anche “L’amico del Giaguaro” condotto da Corrado. Vito era in platea il giorno del saggio di diploma d’Accademia, a fine spettacolo venne in camerino e mi disse “Devo mettere in scena una commedia e tu saresti perfetto per il ruolo principale, ti va?”: Non feci neanche in tempo a dire di sì che il giorno dopo mi ritrovai a casa sua, a firmare la mia prima scrittura da protagonista e a fare “tavolino” insieme a Roberto Recchia. Vito è un regista incredibile, riesce a tirare fuori il meglio dagli attori che dirige e lo fa con una semplicità disarmante. Ricordo come fosse ieri che quando andammo negli studi RAI di Milano a fare promozione di “Mamme e Narcisi”, non appena misi piede fuori dal camerino, con trucco e parrucco impeccabile, l’assistente di studio mi disse “Signora dovremmo microfonarla”: insomma Vito mi aveva fatto costruire quel personaggio talmente bene che mi scambiarono davvero per una donna”.
Un tuo giudizio sul pubblico e sui giovani...
“Credo che i laboratori di recitazione siano un ricettacolo di persone unite e accomunate dal desiderio di condivisione, convivialità e voglia di instaurare nuovi legami; mi piace molto di più pensare a un gruppo di persone riunite attorno a un cerchio, a lavorare ad un progetto comune piuttosto che pensarle in pasto all’abulìa, o davanti una slot machine segregate in una sala Bingo. L’ombra diabolica, però, si insinua quando questi laboratori diventano l’occasione per tanti “maestri” senza titolo, tronfi, vanagloriosi ed egoriferiti, per autoincensarsi e millantare fantomatiche carriere da sogno. Queste persone, che in genere si autoproclamano (alla Napoleone) a Guru, non solo generano fanatismo tra i malcapitati, ma creano anche “mostri”: pseudo attori privi di talento e dalla discutibile preparazione che sul palco lasciano solo scie di narcisismo”.
Chi è nella vita di tutti i giorni Giuseppe Ferlito? Cosa ami fare o non fare nel tempo libero, cosa leggi, ascolti o vedi?
“Nella vita di tutti i giorni mi nutro, prendo linfa, mi ricarico e metto a fuoco i miei desideri guardando gli occhi di mia figlia che hanno per me lo stesso effetto della Maieutica in filosofia: il suo sguardo mi ricongiunge con me stesso, giocando con lei riesco a capire chi sono io e acquisisco la morbidezza e l’impalpabile di cui ho bisogno. Mi piace dipingere, anche se non lo faccio da un pò e mi piace la cucina: penso che cucinare mi aiuti a comprendere quante infinite possibilità e combinazioni possano celarsi dietro anche solo due semplici ingredienti. In fatto di musica sono decisamente onnivoro anche se poi gli artisti che vado a cercare sono sempre gli stessi: Ben Harper, Yann Tiersen, Prince, Lang Lang, Einaudi, Lady Gaga; in Italia la cantautrice che più mi ispira e a cui torno sempre quando ho voglia di formulare domande è senza dubbio Carmen Consoli, la “Cantantessa”, che con le sue poesie ha scandito tutte le tappe importanti, felici e meno felici, della mia vita. Tra gli scrittori amo molto Gabriel Garcia Marquez, mentre tra i poeti adoro Nazim Hikmet, il regista del cuore è David Lynch che con i suoi film e le sue visioni mi apre mondi insondabili”.
Cosa significa per te interpretare “Novecento” e quali sensazioni provi invece quando porti in scena “OceanoMare”?
“Novecento e OceanoMare sono due spettacoli a cui tengo moltissimo, sono due testi che ho fortemente voluto e sognato. Novecento è una sorta di piccolo ombrello che mi protegge con la potenza della sua storia fatta di amicizia e musica, ormai ho fatto così tante repliche che ogni parola pulsa nelle mie vene e mi batte nel cuore. OceanoMare invece è stata una grande scommessa, un sogno più ardito forse, perché è un romanzo, quindi ho dovuto curarne la riduzione. È un lavoro meraviglioso e ne vado molto fiero non soltanto perché il mio progetto drammaturgico ha ottenuto l’avvallo dello stesso Alessandro Baricco ma anche perché divido il palco con una collega e amica preziosa: Maria Rita Sgarlato, una delle più brave e generose attrici che abbia mai visto”.
Come hai vissuto il periodo della pandemia e come hai trascorso i giorni del lungo stop dell’attività teatrale?
“Purtroppo ho vissuto malamente la costrizione della pandemia, e se è vero che da un lato mi sono mancate le cose più semplici come le passeggiate, fare l’amore con la mia compagna, cenare con gli amici, il poter vedere i miei parenti, gli aperitivi con i colleghi, prendere un caffè al bar o andare al cinema, quello che più mi ha tolto l’aria e di cui ho sentito più la privazione, al limite del dolore fisico, è stato il non poter fare teatro e insegnare, che nel mio caso coincidono. Mi sono mancate la gioiosa spossatezza delle prove e delle lezioni, la comunicazione intima e giocosa con i miei colleghi, la sensazione di essere parte di una comunità selettiva e generosa. Mi sono mancate la cura, l’amore e la dedizione dei piccoli gesti quotidiani che vengono condivisi nel lavoro. Questo periodo di limbo non mi ha cambiato affatto, non mi ha reso migliore, non mi ha fatto scoprire meravigliose nuove strade e piani B. Ha soltanto cementato la mia volontà, ha solo reso d’acciaio la consapevolezza che la mia vita senza teatro non è vita. Ragion per cui ho passato i miei giorni a leggere, a scrivere e pianificare pensando a storie nuove da poter raccontare. Ho immaginato il palcoscenico, la platea, il sipario, il “chi è di scena” anelando, bramando e sperando compulsivamente in una fine”.
I tuoi prossimi impegni ed i tuoi progetti.
“Attualmente sono in prova con uno spettacolo che debutterà a giorni, un mio adattamento e riscrittura di “Quarta Dimensione” di Ghiannis Ritsos, con Maria Rita Sgarlato e la regia di Franco Giorgio. Poi sarò coinvolto insieme a Sonia Grandis in un recital sulla figura di Eracle per il Museo Archeologico di Lentini. Leggerò alcuni miti insieme al filosofo Marcello Veneziani per 3drammi3 a Ragusa Ibla e ho impegni di doppiaggio a Roma che mi vedranno coinvolto a fine giugno. Inoltre sono previste anche altre repliche di “Antigone” di Sofocle, di cui ho firmato la regia e che ha visti coinvolti gli studenti del liceo classico di Ragusa. Volevo infine ringraziarti Maurizio per questa preziosa opportunità, ma soprattutto per la pazienza e per aver sopportato la mia irrefrenabile loquacità”.
Per concludere questa lunga chiacchierata, debbo dire che è stato un piacere ospitare nella mia rubrica un serio professionista come Giuseppe Ferlito, ascoltare pagine di vita, aneddoti e conoscere meglio il suo percorso professionale. A questo punto non mi resta che salutare i lettori ed augurare un buon lavoro al nostro scrupoloso attore. Alla prossima intervista…