Cultura

Diadoco, fu vescovo di Foticea, nella provincia romana dell’Epirus Vetus nella diocesi civile di Macedonia che, fino a metà circa dell’VIII secolo faceva  parte del patriaAll Post Templatesrcato di Roma e che poi fu sottoposta sotto la giurisdizione del patriarcato di Costantinopoli.

Diadoco di Foticea

Della vita di Diadoco, che nacque nel 400 circa, conosciamo relativamente poco, malgrado  sia uno dei maggiori maestri di spiritualità del V secolo greco.    Le notizie ci sono pervenute attraverso tre testi: una menzione del patriarca di Costantinopoli Fozio (810-893), che nomina Diadoco tra gli avversari dei monofisiti al Concilio di  Calcedonia nel 451. L’eresia monofisita, elaborata nel V sec.  dal monaco Eutiche (378-454),  archimandrita di un monastero di Costantinopoli, nega la duplice natura divina e umana di Cristo, sostenendo che la natura umana di Gesù era assorbita da quella divina e quindi in lui era presente solo la natura divina. Questa eresia fu condannata dal Concilio di Calcedonia con la proclamazione che in Cristo sussistevano due nature, l’umana e la divina; nella lettera indirizzata  nel 461 all’imperatore Leone I  (Mansi, 7,619) per informarlo della morte di Proterio, vescovo di Alessandria, avvenuta nel Giovedì Santo del 457 a causa di un linciaggio organizzato da gruppi di monofisiti, tra i firmatari della lettera appare anche il suo nome, ma non possiamo escludere che sia egli  stesso l’autore; infine, dal prologo della Historia persecutionis Africanae Provinciae, temporibus Geiserici et Hunirici regum Wandalorum), scritta dal vescovo Vittore di Vita  (430 ca. – + dopo il 484), nella provincia  africana della Bizacena,  appartenente al clero di Cartagine ricaviamo anche il nome di Diadoco. L’Historia persecutionis Africanae è la principale testimonianza contemporanea delle politiche anti-nicene del regno ariano dei Vandali. Il vescovo Vittore in quest’opera  loda Diadoco per la sua difesa del dogma cattolico contro gli eretici monofisiti.

Questo testo fa supporre che Diadoco fosse stato deportato dai Vandali dalla sua sede episcopale che, in base a due iscrizioni, è stata identificata con Limboni, a nord-ovest di Paramythia, oggi Ajdonat, in Tesprozia, in Epiro, e condotto a Cartagine. Diadoco probabilmente morì in Africa.  In ogni caso, la sua vita rispecchia quella dei monasteri d’Oriente; nel V sec. c’erano ancora in Grecia dei cenobiti, degli eremiti e dei solitari, ma soprattutto in Egitto egli poté conoscere il monachesimo attraverso il suo maestro, il diacono Evagrio Pontico  (345 – 399), che si era ritirato nel deserto egiziano, dapprima a Nitria, ad una cinquantina di chilometri a sud-est di Alessandria per due anni, poi, per il resto della sua vita, a Kellia (“le celle”) situato nel deserto più interno e riservato ai monaci più “sperimentati alla vita nel deserto”. Il diacono Evagrio è stato un importante esponente della teologia monastica origenista       .

Di Diadoco restano le seguenti opere: il suo capolavoro,  Capita centum de perfectione spirituali o Capita gnostica centum (Cento capitoli sulla perfezione spirituale: PG 65,1167-1212, che è una guida alla perfezione spirituale, i cui temi trattati sono: Dio e la Grazia, il discernimento degli spiriti e la vita spirituale; un Sermo contra Arianos (PG 65,1140-1166) in cui il vescovo di Foticea inserisce una Horasis, cioè un dialogo con   Giovanni Battista, avvenuto in sogno, che tratta dei problemi relativi alla visione di Dio, bellezza senza forma in cielo; nell’Homelia Ascensione D. N. Iesus Christi (PG 65,1141-1148) Diadoco rigetta il monofisismo. La polemica, così rappresentata alla fine dell’Homilia, è ancor più evidente nei Capita centum  in cui Diadoco attacca costantemente l’eresia del messalianismo delle omelie pseudo-macariane. Gli aderenti a questa eresia, che fu condannata dal Concilio di Efeso nel 431, consideravano la preghiera continua come unico modo di esorcizzare la presenza di Satana, coabitante insieme alla Grazia nell’anima del cristiano. Diadoco però non nega l’efficacia della preghiera, al contrario, egli raccomanda la reiterata invocazione del nome di Gesù ma, nello stesso tempo, proibisce la ripetizione del Battesimo, che colma la grazia dell’anima e ne scaccia il demonio. Una tale polemica, tuttavia,  non spiegava da sola  il successo del Capita centum; l’influenza da essi esercitata sui monasteri della Grecia  e dell’Oriente deriva dall’equilibrio della loro dottrina spirituale; essi, inoltre, con le parti consacrate al discernimento degli spiriti, hanno preparato l’insegnamento di sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) e di santa Teresa del Bambin Gesù (1873 – 1897).

Gerusalemme – Il Cenacolo, oggi convertito in moschea, è il luogo dove la tradizione colloca l’avvenimento della Pentecoste. Nella foto: eccezionale celebrazione solenne dei Vespri d Pentecoste

Il vescovo Diadoco nel Capita centum de perfectione spirituali, scrive: <<La luce della vera conoscenza consiste nel discernere senza errore il bene dal male: allora la via della giustizia, che conduce lo spirito a Dio, sole di giustizia, lo introduce anche nella illuminazione infinita della conoscenza, perché ormai esso si è posto arditamente alla ricerca della carità… E’ necessario che quelli che combattono si mantengano sempre con la mente al di sopra del fluttuare delle passioni; così lo spirito potrà discernere i pensieri che l’attraversano e affiderà quelli che sono buoni e vengono da Dio alla custodia della memoria, mentre rigetterà da questo deposito naturale i pensieri cattivi e diabolici. Infatti quando il mare è tranquillo, i pescatori possono penetrare con lo sguardo fino al fondo, tanto che non sfugge loro quasi nessun movimento degli esseri che lo popolano; ma quando è sconvolto dai venti, nasconde con la sua tempestosa agitazione quello che lascia ampiamente scorgere nella tranquillità della calma. E’ evidente, allora, quanto sia inutile la fatica di coloro che si danno da fare con le arti della pesca… Solo lo Spirito Santo può purificare lo spirito, perché se lui, il potente, non entra a strappare al ladro la sua preda (cfr. Lc. 11, 22) nessuno gliela potrà più togliere. Dobbiamo dunque cercare in tutte le cose, mediante la pace dell’anima, di offrire ospitalità allo Spirito Santo, per avere in noi sempre vivida la luce della conoscenza. Infatti se essa splende ininterrottamente nell’intimo dello spirto, le suggestioni maligne e tenebrose dei demoni non solo si fanno evidenti, ma perdono gran parte della loro forza, messe così allo scoperto da questa luce santa e gloriosa. Per questo l’apostolo Paolo  dice: <<Non spegnete lo Spirito>> (I Tess. 5, 19), cioè: non rattristate lo Spirito Santo con le vostre cattive azioni e i vostri cattivi pensieri, perché egli non vi privi dell’aiuto del suo splendore. Non che la luce eterna e vivificante dello Spirito Santo si possa spegnere: ma la sua tristezza, cioè il suo allontanamento, lascia lo spirito avvolto nella più densa oscurità, privandolo della luce della conoscenza…

Il senso spirituale è il gusto sicuro con cui si è capaci di discernere le diverse realtà. Come infatti il senso corporale del gusto, quando stiamo bene, ci fa distinguere senza errore le cose buone dalle cattive, e ci fa desiderare quello che è gradevole, così il nostro spirito, quando comincia a muoversi nel pieno delle sue forze e in assoluta libertà dalle preoccupazioni, può gustare pienamente la consolazione divina, senza mai essere sedotto da ciò che le si oppone… E, attraverso l’azione della carità, conserva di questo gusto una memoria indefettibile, così da saper discernere il meglio secondo quello che dice l’apostolo: Questa è la mia preghiera: che la vostra carità cresca sempre di più nella conoscenza e nella finezza del senso, perché sappiate discernere il meglio (Fil. 1,9-10)>> (Diadoco di Foticea,  da Capita centum de perfectione spirituali, 6,26,28,30: P.G. 65,1169 B, 1175 A. C-D, 1176 B-C.).

Diadoco, che  muore probabilmente nel 474 circa, è  venerato come santo dalla Chiesa ortodossa che ne celebra la memoria il 29 marzo.

Diac. Dott. Sebastiano ManganoGià Cultore di Letteratura Cristiana Antica nella Facoltà di Lettere dell’Università di Catania

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